A vent’anni dalla nascita, un aspetto positivo dall’introduzione di Facebook e degli altri social network nella quotidianità è stata la creazione di nuove forme digitali di associazionismo. Alle strade reali della città si sono affiancati infatti i Social Street: gruppi Facebook dedicati alla via o al quartiere frequentati da vicini di casa. In queste piazze virtuali le persone si connettono per conoscersi, scambiarsi favori o prendersi cura della zona. Si danno appuntamento per pulire i luoghi comuni o aiutare i più fragili. Tutto nella logica della gratuità. Sono escluse infatti le attività che promuovano comunicazioni politiche o dettate da motivazioni economiche.
Un esempio di come utilizzarli? Annunci per portafogli smarriti, richieste di dog-sitter o consigli su corsi di cucina, musica o sport nel quartiere.
Navigando sui gruppi, si nota come le richieste siano tra le più disparate: dagli utenti che regalano gli oggetti a chiunque sia disposto a ritirarli a chi si interroga se sia venuta meno la corrente nel quartiere. Tutti quesiti che restano inevasi solo per pochi minuti, grazie alle pronte risposte e consigli degli altri utenti.
I Social Street sono nati nel 2013 a Bologna, e da allora a Milano se contano 104. Il gruppo più numeroso è Social Street Paolo Sarpi Italia, che conta quasi 26 mila membri. Sono realtà nate dal basso e aperte a tutte le persone che abitano il territorio, che hanno dimostrato il proprio valore per esempio durante la pandemia: molti infatti hanno sfruttato la piattaforma per acquistare la spesa in gruppo, o aiutare i residenti più anziani e fragili, maggiormente esposti alla malattia in caso di contagio.
Il manifesto delle Social Streets
Una definizione più accurata del fenomeno la fornisce Cristina Pasqualini, professoressa di sociologia all’Università Cattolica di Milano e amministratrice del gruppo di via Tartaglia – Monviso. «Questi gruppi nascono con l’obiettivo di sviluppare la socialità di prossimità. Non hanno nessun’altra funzione. Ci insegnano a perseguire le regole del buon vicinato, come ci insegna anche il nostro Arcivescovo. È una esperienza nata in Italia che, rispetto a gruppi simili su Facebook, si caratterizza per una progettualità specifica. Lo definirei un movimento di persone che vogliono aiutarsi, conoscersi, fare attività assieme. E man mano che le persone si sono riconosciute in questa idea, l’hanno replicata nel proprio quartiere».
Negli anni il progetto non si è fermato ai confini italiani. Gli stranieri che hanno soggiornato a Milano negli ultimi dieci anni hanno adattato il metodo alla propria realtà locale. Il successo anche su scala internazionale secondo Pasqualini risiede proprio nell’intento, come per le piattaforme di vicinato, «di connettere i vicini di casa. Che vivono oltretutto con alcune logiche diverse rispetto alla società. Può capitare ad esempio di leggere dei post di utenti che offrono in regalo degli scooter per chi se li viene a prendere. A volte siamo stupiti da queste dinamiche, che però sono davvero affascinanti. È come se ciascuno di noi offrisse il superfluo a chi ne ha bisogno».
Dopo una prima mappatura nel 2014, Pasqualini è stata tra le promotrici dell’Osservatorio sulle Social Street, dal cui lavoro si è sviluppato nel 2018 un primo studio, il rapporto Vicini e Connessi. Ogni anno l’osservatorio effettua una verifica dei gruppi, dei loro gradi di attività e osserva quello che accade al suo interno. «I gruppi che funzionano meglio si trovano nella fascia intermedia della città, dove sembrerebbero sussistere le condizioni ideali per il loro funzionamento». Il fenomeno non si è arrestato neppure dopo la pandemia. Pasqualini sottolinea inoltre come la crescita sia del tutto spontanea, senza che avvenga nessuna campagna di pubblicizzazione dei gruppi. «L’invito a partecipare avviene sempre singolarmente. Sono gli utenti a decidere se partecipare o meno a questa comunità, e ogni occasione di quartiere (anche solo banali informazioni sull’apertura di un cantiere) diventa l’occasione per creare interazioni con il proprio vicinato».