È rettrice di uno dei più prestigiosi atenei a livello mondiale, sempre in ascesa nel ranking internazionale, il Politecnico di Milano. In riferimento al Discorso alla Città dell’Arcivescovo, Donatella Sciuto, ingegnere elettronico, da un osservatorio privilegiato a contatto quotidiano con studenti e accademici definisce il coraggio «una qualità rara, ma anche una forma di responsabilità nel fare le cose se davvero ci si vuole impegnare e migliorare»
Secondo lei nella società che ci circonda prevale più la paura o il coraggio?
La paura è un fattore che c’è sempre, perché non possiamo pensare di essere senza paure. La questione è che dobbiamo affrontarle per andare oltre, accoglierle per capire e superare. In particolare penso alla paura di fallire. Io spiego ai miei studenti che fallire è importante e, talvolta, salutare. Bisogna imparare a fallire perché nella vita succede, prima o poi, di avere degli insuccessi e non bisogna arrendersi. E, allora, si tratta di ricominciare e ripartire, imparando dagli errori fatti perché solo con la conoscenza si possono superare le paure. In questo credo che il richiamo al coraggio che possiamo e dobbiamo darci, come dice l’Arcivescovo nel suo Discorso, sia un rilevante contributo alla convivenza.
Qual è una paura diffusa che si potrebbe superare con una forma di coraggio collettivo?
Pensiamo alla paura del diverso da noi: se ne ha timore perché non conosciamo la cultura, le persone, non essendoci spesso comprensione reciproca. Ma occorre solo imparare a conoscerci e, poi, si arriva ad avere anche il coraggio di fare, di instaurare relazioni, di collaborare.
L’Arcivescovo auspica la creazione di alleanze educative, specie nell’interesse dei più giovani. Come il mondo accademico può portare il suo contributo in una città come Milano?
Certamente Milano è una città universitaria, oltretutto diffusa, in cui gli Atenei sono presenti in diversi quartieri della città. Quando si parla di alleanza educativa io penso anche a un’alleanza educativa con le aree, con i territori della metropoli, perché l’Università possa essere non una cattedrale nel deserto, separata dal tessuto urbano, ma integrata all’interno della comunità dei cittadini che vivono lo stesso quartiere, usufruendo della collaborazione e del dialogo con tutti gli attori di un territorio. Non a caso, le Università sono ora anche un grande attore del cambiamento e della rigenerazione urbana: per esempio, noi adesso stiamo lavorando sul masterplan Goccia-Bovisa, dove cercheremo di rendere quegli spazi una fabbrica della conoscenza, ma anche di restituire un grande bosco alla città. Così come il Conservatorio andrà a Rogoredo, nell’area di quello che era il “boschetto della droga”, proprio per cercare di portare qualcosa di sano che faccia del bene in un luogo di degrado. A Rozzano c’è l’Humanitas: insomma in tante aree della periferia della città le Università possono rappresentare un valore che contribuisce a supportarne il miglioramento, stando attenti, tuttavia, a non snaturare il quartiere originario. A noi spetta il compito che tutto questo sia realizzato nel modo giusto e corretto nel rispetto delle realtà esistenti.
I seminatori di paura sembrano essere ovunque, mentre c’è una sorta di timidezza a parlare di speranza, come ha sottolineato spesso l’Arcivescovo…
Ahimè, prevalgono sempre i seminatori di paura perché con la paura si gestiscono meglio le persone e le si tengono in pugno. Però io sono fiduciosa, cerco sempre di guardare le cose nel positivo e, quindi, di fare in modo che emerga la speranza dietro la paura. Credo, come dicevo all’inizio, che imparare a capire le paure sia fondamentale non ascoltando chi le semina.