Guardate dentro alla Chiesa e tenete negli occhi quello che c’è fuori. Chiedetevi se dentro abita la città che avete intorno, se siete riusciti a parlare a chi vi circonda, a farvi vicino a chi è nel bisogno, nella difficoltà, nella sofferenza sapendo che accade quasi sempre che la comunità presente, quella dei fedeli che partecipano, non è quella dei bisognosi e dei sofferenti. Se è così non dimentichiamo che è a loro che sono fuori che bisogna arrivare.
Come accade alle politiche pubbliche, anche la pastorale corre il rischio di risultare indistinta e di ripetersi uguale anche quando dovrebbe cambiare. Corriamo il rischio, come istituzioni, di istituzionalizzare il nostro modo di operare nella città rendendolo impermeabile alle sollecitazioni dei diversi contesti. Di fronte alle grandi città e alle grandi sfide perdiamo lo sguardo che ci porta vicino. Il quartiere, le sue piazze, le sue strade e i suoi parchi, le case (in particolare quelle popolari), i suoi negozi, le sue scuole, le biblioteche, i campi sportivi… Sono i luoghi della comunità sociale dove siete chiamati a costruire e riunire il popolo di Dio. In tutta la loro contraddizione e in tutta la loro diversità, l’uno dall’altro. Non è anche questo che avete voluto affermare con il Sinodo minore «Chiesa dalle genti»? I quartieri che avete intorno sono le case delle genti e da lì dobbiamo partire o, se preferite, lì siamo chiamati ad arrivare.
In un sistema complesso e stirato dalle contraddizioni, la costruzione di una città nuova, più giusta, più uguale, più amica, più vicina ai deboli, passa per un progetto coraggioso di azione congiunta che sappia mettere al lavoro, nel rispetto dei ruoli, istituzioni differenti riunite dal medesimo obiettivo e animate da una comune speranza: una città diversa non è solo possibile, ma è innanzitutto necessaria, per l’uomo che la abita oggi e l’abiterà domani.
Il progetto è anche azione di contrasto alle derive del presente. Che cosa sta succedendo nelle pieghe di Milano, nelle zone d’ombra? Intanto che il racconto è diventato esclusivo ed escludente; ci sono storie che nel racconto è bene che non figurino, personaggi che è meglio lasciare senza voce, luoghi che non devono essere fotografati per non guastare la rappresentazione. La città sta mediamente bene, molti dicono che stia anche meglio di prima, ma anche la diseguaglianza è cresciuta. Siamo di fronte a un classico problema di tipo redistributivo, ma questo suona sempre più impopolare. E la solidarietà è anch’essa in ritirata, appunto per una deriva egoistico-invidiosa che si è acuita con la crisi più generale in cui versa il Paese. La persona non dà, anzi trattiene. Se può, prende. Siamo dentro a una dinamica in cui l’altro diventa una minaccia, quando non può diventare soggetto a cui prelevare. Se non può essere preda, ma addirittura può diventare predatore, l’altro fa paura.
Viviamo una città comoda, di successo, tendenzialmente tranquilla, efficiente, capace di competere; una città che si distingue, ma che riproduce ed enfatizza all’interno e all’esterno le diseguaglianze. Solitudine e povertà – non solo e non tanto economica quanto intesa come restrizione delle opportunità – si combinano lasciando in situazioni di debolezza crescente coloro che, pure dentro, restano e si sentono fuori. Questo accade principalmente nei quartieri popolari.
Per contro la città che funziona è sollecitata a dare sempre qualche cosa in più a chi ha già tutto. Chi può pagare non intende annoiarsi e, nella presunta soddisfazione che brucia sempre più in fretta, è spinto ad alzare in continuazione l’asticella della novità, dello svago spensierato, dell’esperienza alternativa ed esagerata, dell’ebbrezza mai provata, della scarica di adrenalina.
Può la Chiesa dei quartieri e delle genti, immersa nella città di oggi, essere soggetto nell’azione di contrasto alle derive dell’egoismo difensivo e invidioso, della solitudine e della marginalità sociale? Fate in modo che la Chiesa locale sia dentro il quartiere, che diventi una Casa tra le case. Rendetela riconoscibile per chi abita nei suoi dintorni, legatela ad altri luoghi del quartiere, mettetela in relazione con lo spazio pubblico riconosciuto dalla comunità locale. Senza omologarla, rendetela parte del “sistema territoriale” di riferimento.