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Testimonianza

Profughi, dall’accoglienza alla relazione

Una lettera racconta l’esperienza estiva svolta presso la casa dell'Amicizia della Comunità di Sant'Egidio

di Rossana BONASSINA

4 Settembre 2018

“Chi trova un amico trova un tesoro”. Mai proverbio è stato più vero.

I volontari della Comunità di Sant’Egidio sono diventati amici molto cari, fratelli di cuore. Attraverso loro ho avuto la fortuna di incontrare tanti altri amici, fratelli di cuore: chi arriva dalla Comunità ebraica, chi dalla Chiesa anglicana, chi dalla Comunità musulmana, volontari di altre associazioni e parrocchie, amici di strada con cui si è creata una bellissima intesa.

L’arrivo dell’estate nelle nostre vite porta molte cose belle, le vacanze, il divertimento, il viaggio… E il viaggio verso nuove terre lo tentano anche molte persone che scelgono la via del mare in cerca di una nuova vita. Ormai da qualche anno la Comunità organizza per loro, in modo del tutto autofinanziato, un luogo di accoglienza durante i mesi estivi: sono incontri che ogni anno si rilevano intensi, profondi, forse proprio la difficoltà di non conoscere una lingua comune lascia ampi spazi a sguardi, sorrisi, abbracci.

Quest’anno l’accoglienza è stata fatta presso la Casa dell’Amicizia, e in questo nuovo spazio le relazioni hanno trovato il tempo di crescere pian piano. L’ambiente è molto familiare, una grande casa: alcuni volontari preparano la cena e dopo l’arrivo dei ragazzi, profughi appena giunti in Italia o con un percorso complesso tra vari Paesi europei alle spalle, ci si siede tutti insieme a tavola e si condivide il pane.

L’imbarazzo iniziale pian piano si scioglie, questo gesto annulla ogni confine. Alla fine della cena, intorno al tavolo, con chi parla un po’ d’inglese ci si racconta un po’ delle nostre e delle loro vite, dei loro lunghissimi viaggi. Molti sono minorenni e spesso viaggiano da soli, ragazze costrette a diventare donne per forza, la stessa forza che le costringe a diventare madri troppo presto, “uomini coraggiosi” racchiusi in corpi martoriati di giovani adolescenti.

Certo, il nostro incontro di qualche ora non cambierà e allevierà ciò che è stato, ma come diceva Madre Teresa di Calcutta «non possiamo fare sempre grandi cose nella vita, ma possiamo fare piccole cose con grande amore». Mi piace pensare perciò che, per qualche notte, possano coricarsi, riposare, sentirsi accolti e al sicuro e magari riuscire a sognare i loro cari, ciò che hanno lasciato o ciò che più desiderano.

Quello che vivo insieme ad alcuni amici della mia comunità parrocchiale della Madonna della Fede di Milano è mettere in pratica ciò che preghiamo ogni giorno. Il condividere un servizio così importante ha rafforzato le nostre relazioni, soprattutto in questo periodo dove il colore della pelle di una persona è diventato il metro di giudizio: da una parte il bene, dall’altra il male. Siamo assordati da tante parole di odio, di intolleranza e non ascoltiamo più i nostri cuori. Le parole che questi ragazzi continuamente ci dicono sono «Grazie» e «God bless you».

Dalle accoglienze degli anni scorsi sono rimaste alcune belle amicizie che coltivo e a cui tengo molto e lo studio della lingua italiana permette ora un bel dialogo.

Auguro a chi è spaventato, impaurito da questi incontri, questo migrare di popoli, di poter incrociare almeno per una volta lo sguardo profondo di chi ha avuto solo la sfortuna di nascere in un Paese diventato povero, un Paese dove da sempre l’uomo è trattato da schiavo, dove per tanti secoli il bianco ha razziato e ucciso. Se anche uno solo di questi uomini e donne sogna una vita migliore, io sento il dovere spirituale e morale di accoglierlo, di aiutarlo. Da qualunque punto cardinale provenga, il vento nuovo porta con sé tanti tesori, sta a noi coglierli.

Come dice il mio amato papa Francesco, non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio. Bisogna custodire la gente, aver cura di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore.

 

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