Hanno la pelle bianca le donne che si prostituiscono sulle strade di Milano. A dispetto dell’enfasi posta sui gruppi criminali africani e dei loro legami con gli scafisti libici, negli ultimi anni è continuata e mostra segni di ripresa la tratta dall’Est europeo: romene e albanesi, rigidamente controllate dal racket, sono sempre state le nazionalità prevalenti e tali sono rimaste, tra le schiave del sesso costrette a vendersi sul marciapiede nel capoluogo lombardo. Il principale cambiamento riguarda invece le nigeriane: intrappolate nei centri di detenzione libici o dirottate in altri Paesi africani, sul territorio cittadino sono quasi dimezzate; ma tra loro c’è anche un gran desiderio di riscatto e sono in aumento quelle che decidono di lasciare la strada e accettano l’ospitalità degli appartamenti protetti.
È quanto emerge dall’osservazione sul campo e dai racconti raccolti dalle operatrici dell’Unità di Strada Avenida di Caritas Ambrosiana, che due sere alla settimana, escono lungo la circonvallazione esterna di Milano per offrire sostegno e aiuto.
Nel corso di questa attività, lo scorso anno Avenida ha intercettato 197 donne, meno di quante ne ha incontrate l’anno precedente (235). Tuttavia ciò che colpisce di più è il peso diverso delle nazionalità di appartenenza. ROmene e albanesi, storicamente le più presenti, passano, le prime dal 43% nel 2018 al 45% nel 2019 e le seconde dal 22% al 25,9% e insieme continuano a rappresentare largamente la maggioranza delle donne costrette a prostituirsi in strada. Un lieve incremento che, insieme al turn over (il numero di nuove donne presenti che sostituiscono le precedenti), fa credere agli operatori che il racket continui a operare indisturbato. Quello che è invece mutato è il peso delle nigeriane che, anche nel passato non sono mai state la maggioranza e nell’ultimo anno calano, scendendo dal 23% (2018) al 14,2% (2019).
«La diminuzione della loro presenza si spiega con una diversa strategia dei gruppi criminali che gestiscono il traffico – osserva suor Claudia Biondi, responsabile dell’area tratta di Caritas Ambrosiana -. Se prima del caos libico le donne nigeriane venivano mandate in Italia a bordo di normali voli aerei ed entravano nel nostro Paese con visti turistici, dall’inizio della guerra i clan criminali hanno trovato più conveniente accordarsi con gli scafisti e utilizzare le rotte dell’immigrazione. Ora, invece, hanno capito che è più facile farle prostituire nelle miniere d’oro dell’Africa sub-sahariana mentre quelle che non riescono più ad attraversare il Mediterraneo restano prigioniere dei centri di detenzione libici dove subiscono violenze terribili».
Sempre le nigeriane sono anche quelle più motivate ad abbandonare la strada. Tutte le 37 ospiti delle case protette (5 appartamenti e due comunità) gestite da cooperative promosse da Caritas Ambrosiana provengono dal Paese africano. Di queste 19 sono entrate nelle rete di protezione nell’ultimo anno. Due terzi sono rifugiate politiche e un terzo immigrate che hanno ottenuto il permesso di soggiorno, proprio perché hanno accettato di tagliare i ponti con i loro sfruttatori, come previsto dall’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione (D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286). Durante il periodo di permanenza nelle comunità, lavorano, seguono corsi di formazione professionale, studiano.
«È vero che i trafficanti nigeriani hanno sfruttato le rotte migratorie per far giungere nel nostro Paese le schiave del sesso, come abbiamo sempre denunciato. Ma chiudere i porti non risolve il problema. Al contrario lo sposta altrove e aggrava lo stato di sofferenza e sfruttamento delle donne -osserva Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana -. Lo sfruttamento lo si combatte con la repressione dei trafficanti e offrendo alle donne occasioni d’integrazione, proprio come l’attività dei nostri servizi dimostrano. Invece l’enfasi posta sui barconi rischia di far passare in secondo piano un fenomeno rilevante che non si è mai interrotto e che continua ancora: la tratta delle bianche in mano a organizzazioni criminali forse meno strutturate, ma non meno violente di quelle africane che hanno continuato ad agire indisturbate in questi anni attraverso i confini interni dell’Europa».