Per la prima volta l’Istat ha, per così dire, contato i senza tetto. La ricerca ha un grande valore culturale e offre una punto di partenza ragionevolmente certo per elaborare qualche riflessione.
Vorrei partire proprio da Milano, che con i suoi 13 mila senza dimora, si guadagna il titolo di capitale degli homeless. Un dato, indubbiamente impressionante, che però va bene inteso. Sarebbe, infatti, evidentemente un errore dedurre che nel capoluogo lombardo si viva peggio che nelle altre città italiane. Al contrario, paradossalmente, una tale concentrazione di homeless è il sintomo che Milano, come altre metropoli occidentali, continua ad essere una realtà dinamica e quindi capace di attirare chi cerca una chance di futuro. Povertà estrema e ricchezza sono, che ci piaccia o no, il tratto comune delle capitali economicamente avanzate. E nonostante la crisi, il capoluogo meneghino continua ed essere tra il novero di queste. Si deve poi aggiungere che l’estesa rete di servizi di accoglienza, di cui la città va giustamente orgogliosa, inevitabilmente catalizza il disagio proveniente da un’area metropolitana ben più ampia di quella contenuta nei confini municipali.
Tutto bene allora? Niente affatto. Innanzitutto, se quello che abbiamo detto è vero, dobbiamo riconoscere che è perfettamente inutile tentare di allontanare o scoraggiare quanti reclamano un futuro migliore o la semplice sopravvivenza sotto le guglie della Madonnina. L’evidenza dei numeri dimostra quanto i tentativi fatti fino ad un recente passato sono stati più efficaci sul piano della propaganda che su quello della realtà.
Invece di far finta di niente o cercare di nascondere la polvere sotto il tappeto, la ricerca dell’Istat dovrebbe suggerire proprio a noi milanesi che sarebbe politicamente responsabile prendere atto che i senza dimora esistono.
In questo senso il potenziamento dei dormitori annunciato in vista dell’inverno dall’assessore Pierfrancesco Majorino la scorsa settimana è un segnale importante e concreto. Così come l’idea di un coordinamento dei tanti servizi gestiti dal pubblico e dal privato. Da anni lo andiamo dicendo. Ora occorre che questo piano d’intervento sia innanzitutto metabolizzato da chi lo deve mettere in pratica, vale a dire dagli operatori delle unità mobili, dei dormitori, delle mense. Dai medici dei pronto soccorso, come dagli assistenti sociali e dai volontari delle realtà caritative.
Sarebbe, inoltre, utile che questo sforzo comune coinvolgesse non solo Milano. Se gli homeless sono un problema della sua area metropolitana, la città non può essere lasciata sola. Quanto più sostenibile ed efficace sarebbe l’intervento sociale se anche i comuni dell’hinterland facessero ognuno la propria parte, aprendo piccole strutture di accoglienza, dove il rapporto con gli ospiti sarebbe più personale e l’impatto sulla città meno problematico?
Sappiamo, però, che per operare in questa direzione occorre un prerequisito: è fondamentale che chi è più direttamente coinvolto percepisca il consenso dei cittadini. E su questo piano molto va fatto per risalire quella pericolosa china che ha spinto l’opinione pubblica a percepire chi si trova in grave stato di bisogno sempre e solo come uno inoperoso peso morto o peggio un criminale.
In realtà, proprio l’Istat – non qualche prete buonista – ci dice che non è la voglia di rimboccarsi le maniche a fare difetto. Secondo la ricerca più della metà degli intervistati un lavoro ce lo aveva, ma lo ha perso. Più di un quarto un lavoro ce lo ha ancora, ma non ha un reddito sufficiente. Per strada è finta una parte di quella classe operaia che, in altre epoche, sognava il Paradiso. Insieme a quei sottoproletari, per lo più stranieri, addetti alle mansioni più umili: facchini, lavapiatti, addetti al carico e scarico dei rifiuti.
Ecco allora. Cominciamo da qui. Forse riusciremo a guardare ai senza dimora con occhi diversi.