Domenica 23 settembre, alle 18.30, il Teatro alla Scala (via Filodrammatici 2) ospita il Green Carpet 2018, evento organizzato dalla Camera Nazionale della Moda Italiana al quale presenzierà anche l’Arcivescovo, monsignor Mario Delpini (i dettagli a fianco, ndr).
Design, creatività, lusso, ma anche sostenibilità, rispetto per il pianeta e il lavoro dell’uomo: questi i nuovi canoni della moda che vede Milano teatro di importanti eventi, con la partecipazione di stilisti e acquirenti provenienti da tutto il mondo. Ma quali possono essere le ricadute sociali, culturali ed educative di questo fenomeno? L’abbiamo chiesto a Emanuela Mora, docente di Sociologia della comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e direttore del Centro ModaCult.
Che significato ha oggi la moda per Milano?
Per l’Italia, e per Milano in particolare, la moda è un settore di lavoro importante, che ha un grande impatto sulla vita sociale e culturale. Se da un lato il pubblico è colpito dagli effetti glamour e appariscenti delle sfilate e dei modelli in passerella, dall’altro spesso si rimane anche perplessi davanti alla grande quantità di capi che rimangono nei negozi invenduti. In Italia ci sono tradizioni e culture diverse che riguardano il modo di confezionare i tessuti e produrre abiti. Per i consumatori, invece, l’abbigliamento è, consapevolmente o inconsapevolmente, il modo principale per entrare in comunicazione con gli altri.
Come si può affrontare questo tema da un punto di vista educativo?
Per gli altri strumenti di comunicazione, come i mass media, esistono corsi di formazione. La moda invece viene tralasciata. E questo è sbagliato. Essa infatti riveste un ruolo molto importante. Basti pensare a come i ragazzi si servono di un particolare abbigliamento per creare una tribù o prendere le distanze dai genitori. Non ci si ferma a riflettere su quali possano essere i rischi o le potenzialità positive di come ci si veste e nemmeno si pensa ai processi produttivi che portano alla realizzazione di un abito o tantomeno allo sfruttamento del lavoro che può esserci dietro. Considerazioni di questo tipo sarebbero invece molto importanti.
Il Green Carpet punta a rendere il consumo della moda più sostenibile. Che ne pensa?
Che su questo versante c’è ancora molto da fare. A partire dal 2009 si è iniziato a parlare di moda sostenibile, critica, etica. Ma solo negli ultimi sei anni il tema ha guadagnato visibilità sull’agenda dei protagonisti a livello globale e la stessa Camera Nazionale della Moda ha diffuso alcune linee-guida sull’argomento. Due avvenimenti hanno attirato l’attenzione in questo ambito. Nel 2011 GreenPeace, con la campagna “Detox”, ha chiesto ai grandi players di ridurre entro il 2020 le pratiche dannose a favore di altre sostenibili, cioè con un minore impatto sull’ambiente: si è cercato insomma di riformare la produzione, dalla fornitura dei tessuti alla fabbricazione degli accessori, con l’intento di migliorare l’immagine delle case di moda e di avere benefici anche in termini finanziari. Poi, nel 2013, c’è stato il crollo del Rana Plaza a Dacca: un edificio di 8 piani, in cui più di mille persone lavoravano senza alcuna sicurezza, è franato, provocando numerosi morti e feriti. Questi eventi hanno portato a un vero e proprio cambiamento di passo. È necessario costruire un discorso pubblico per informare su questi temi. Ma la sola informazione non basta per cambiare gli stili di consumo e orientare alla sostenibilità. Il consumo è guidato da circuiti relazionali: bisogna lavorare sulle condizioni per cui è più socialmente apprezzato fare scelte sostenibili piuttosto che non farle. Aiutare i giovani a conoscere e sperimentare da dove vengono i capi, aiutarsi a cercare marchi i cui processi produttivi sono radicati nel “sapere” locale, valorizzare quelli prodotti con tecniche moderne e innovative perché più belli e resistenti. Oggi, infatti, la sostenibilità è all’altezza di standard elevati.