Non si scopre certo oggi il carattere cosmopolita di Milano. Da generazioni la città è la casa di chi parte, sia per i casi di immigrazione dal sud Italia, sia per fenomeni più recenti. Una vocazione multiculturale che, tuttavia, da tempo è inceppata. Già prima della pandemia Milano appariva respingente a chi non rispondeva ai suoi alti requisiti. Barriere che spesso fermano chi non possiede un tenore di vita al passo con i costi della metropoli.
Cristina Pasqualini, docente di Sociologia dell’Università Cattolica, descrive i mutamenti in corso da anni: «È successo quello che è avvenuto dappertutto, non solo a Milano: in un tessuto già fragile, la crisi economica prima e quella sanitaria poi hanno acuito queste debolezze, colpendo soprattutto il ceto medio».
Nell’analisi di Pasqualini oggi emergono ancor più le diseguaglianze economiche e sociali. I ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Una polarizzazione che mette in pericolo l’esistenza del ceto medio. Come già descritto nelle osservazioni dell’architetto Rabaiotti (leggi qui), questo fenomeno è accelerato anche dalla questione abitativa: oggigiorno l’accesso a un mutuo è reso complicato dai prezzi stellari, così come per gli affitti.
La solitudine del ceto medio
L’effetto è lo slittamento del ceto medio verso le fasce meno abbienti. Nemmeno un solido nucleo familiare è immune da questa dinamica. «Chi vive da solo – espone Pasqualini – ha costi contenuti e gli è sufficiente un monolocale, oppure una stanza in condivisione, che hanno comunque raggiunto cifre importanti. Una famiglia che magari ha anche più figli ha bisogno però di spazio, di almeno 60 metri quadri per vivere una vita dignitosa. Per permetterselo a Milano, però, occorre mettere in preventivo risorse significative».
Una compressione che espone a frustrazione e depressione in un corpo così rilevante della città, che è costretto o decide di trasferirsi verso le cinture esterne, in luoghi più sostenibili economicamente. «Questo è un danno per Milano, perché il ceto medio è il collante di molti territori – spiega Pasqualini -. Se oggi la città è vissuta solo di giorno si stravolge tutto. Immaginate Milano come un grande centro commerciale: di giorno i servizi e le attività, ma la sera si spegne tutto per andare in punti che diventano dormitori. Questa non può essere Milano, perché per essere un luogo deve essere abitabile. Oggi però non è più una possibilità per molte persone. Il rischio è che rimangano solo gli estremi».
Un fenomeno che Pasqualini sintetizza citando il sociologo Zygmunt Bauman: «Si tratta della solitudine del cittadino globale. In una città come Milano la senti eccome, perché si perdono i legami di prossimità come stare insieme, conoscersi e avere fiducia dei vicini di casa. Questo è provocato anche dalla mobilità milanese: le persone vanno e vengono con estrema facilità e c’è uno scarso radicamento. Se le professioni sono più volatili, le radici non affondano nel terreno. Ecco spiegata la scarsa aderenza al territorio».
Il modello dei Social Street
Un argine a questa deriva è rappresentato dall’associazionismo o dalle sue nuove forme digitali. Dal 2013 sono nati progetti di partecipazione di cittadinanza attiva molto sviluppati, come il Social Street: sono gruppi Facebook dedicati alla via o al quartiere frequentati da vicini di casa, che si connettono non solo per conoscersi e scambiarsi favori, ma anche per prendersi cura del quartiere. Si danno appuntamento per pulire i luoghi comuni o aiutare i più fragili. Tutto nella logica della gratuità.
Realtà nate dal basso e che, dieci anni dopo la loro nascita, contano almeno un centinaio di realtà, in centro e in periferia, aperte a tutte le persone che abitano il territorio. Un valore che ha contato durante la pandemia. «Dato che i vicini di casa già si conoscevano – racconta Pasqualini -, hanno sfruttato la piattaforma per fare la spesa di gruppo o andare in farmacia. Questi sono tentativi dal basso di conoscersi, di fare rete, di includere, che possono essere interessanti».
Temi che Pasqualini collega al valore della prossimità: «Milano è sempre stata un laboratorio di sperimentazione sociale; per questo bisogna stare attenti a non perdere questa vocazione all’inclusione e all’innovazione. L’arcivescovo Delpini su questo tema è da sempre lungimirante. Già nel Discorso alla Città sul buon vicinato (leggi qui) invitava tutti gli attori sociali a far fronte comune per rinnovare la qualità di questa prossimità».
È stato proprio il Covid, paradossalmente, a porre di nuovo al centro dell’attenzione questa virtù: «La pandemia ci ha riportato con i piedi per terra. Abbiamo fatto i conti con noi stessi e abbiamo visto che la nostra prossimità era impoverita. Abitiamo in un territorio che non conosciamo, non sappiamo chi sono i nostri vicini di casa e quali servizi ci sono perché non viviamo il territorio. I quartieri con i legami sociali più forti hanno saputo far fronte comune anche alla pandemia. Questa però non è una novità, è un trend che ha origini lontane».