«La nostra intenzione è di poter arrivare quanto prima alla firma di una convenzione che sia rispettosa delle preoccupazioni che i nostri mondi hanno voluto rappresentare al Comune». Don Roberto Davanzo, direttore della Caritas ambrosiana, parla della trattativa in corso con il Comune di Milano e la Prefettura per la destinazione delle risorse messe a disposizione dal ministro Maroni per lo smantellamento dei campi autorizzati e l’avvio di un processo di integrazione dei rom a Milano. Campi che sono stati assegnati attraverso un bando ad enti gestori tra cui la Caritas ambrosiana con il Consorzio Farsi Prossimo per via Novara; Casa della carità in particolare per i due grandi campi di via Triboniano; i Padri Somaschi in via Bonfadini e altri soggetti non legati alla Chiesa di Milano per campi rimanenti. Le richieste sono chiare: investire sull’integrazione, puntando su casa e lavoro, ma con il protagonismo del Comune e con il supporto delle organizzazioni sociali.
Don Davanzo, cosa pensa dello smantellamento dei campi?
«Siamo d’accordo che questi campi vanno superati, che l’abitare dei rom nei campi non può essere considerato stabile e definitivo. Però va superato verso altre forme di abitazione che siano rispettose della dignità delle persone, anche perché i campi sono nati in una logica emergenziale. Penso a via Novara, una struttura che doveva durare 2-3 anni, ormai sono 10: è assolutamente fatiscente, in condizioni da favelas, pur avendo tutti i crismi dell’autorizzazione. Allora come usciamo dai campi e favoriamo processi per quanto faticosi di integrazione da parte di queste famiglie che ormai non sono più nomadi? La Prefettura e il Comune hanno proposto un’ipotesi di convenzione rispetto alla quale si sono te delle riserve. Abbiamo chiesto alcune garanzie in merito ad aspetti che ci preoccupano».
Quali sono le criticità del progetto?
«In sintesi le obiezioni sono due. Primo, nella convenzione non emergeva in modo chiaro come favorire processi di integrazione, attraverso risorse adeguate a questo obiettivo che per noi è centrale, perché significa il rispetto della dignità delle persone rom, ma anche degli italiani. Solo se ci mettiamo tutti nella logica di investire il meglio delle nostre risorse nella prospettiva dell’integrazione, possiamo immaginare un futuro che sia di sicurezza per gli italiani e di pacifica convivenza con queste presenze. Se invece ci poniamo soltanto in una prospettiva di chiusura dei campi senza affrontare il secondo fronte della questione, si pongono ancora una volta le premesse per un futuro di conflittualità, di insicurezza, di disagio anzitutto per i cittadini italiani e naturalmente anche per queste famiglie».
E il secondo motivo?
«Non emergeva in maniera chiara la piena titolarità della Pubblica amministrazione in questo progetto: avevamo la sensazione che Comune e Prefettura enfatizzassero troppo il ruolo delle realtà del privato sociale che gestiscono questi campi e che dovrebbero poi accompagnare all’uscita queste famiglie, quasi che il problema dei rom fosse anzitutto degli enti gestori. Volevamo che il Comune “mettesse di più la faccia” evidenziando il ruolo prioritario delle istituzioni pubbliche alle quali poi si affiancano realtà come le nostre che ormai da anni conoscono le famiglie, le hanno accompagnate, hanno fatto la fatica di stare in questi campi fatiscenti».
In particolare su quali questioni chiedete l’impegno del Comune?
Su due delicatissime: lavoro e casa. Sulla prima chiedevamo con chiarezza quali strumenti il Comune avrebbe messo a disposizione per favorire l’inserimento lavorativo dei rom, evitando di favorire il fenomeno del “lavoro nero”. Riteniamo che quella di oggi debba essere un’occasione buona per promuovere un salto di qualità anche in termini di legalità, di sicurezza delle condizioni lavorative. La casa è il problema più complesso. Il mercato privato è pressoché inaccessibile a queste famiglie e le case popolari hanno liste d’attesa lunghissime. Era necessario che il Comune assumesse un ruolo più definito nell’individuare le abitazioni per queste famiglie, certo, con la nostra collaborazione che non mancherà. Gli incontri che si sono realizzati negli ultimi giorni ci fanno sperare nella possibilità di una soluzione positiva di tutta la vicenda». «La nostra intenzione è di poter arrivare quanto prima alla firma di una convenzione che sia rispettosa delle preoccupazioni che i nostri mondi hanno voluto rappresentare al Comune». Don Roberto Davanzo, direttore della Caritas ambrosiana, parla della trattativa in corso con il Comune di Milano e la Prefettura per la destinazione delle risorse messe a disposizione dal ministro Maroni per lo smantellamento dei campi autorizzati e l’avvio di un processo di integrazione dei rom a Milano. Campi che sono stati assegnati attraverso un bando ad enti gestori tra cui la Caritas ambrosiana con il Consorzio Farsi Prossimo per via Novara; Casa della carità in particolare per i due grandi campi di via Triboniano; i Padri Somaschi in via Bonfadini e altri soggetti non legati alla Chiesa di Milano per campi rimanenti. Le richieste sono chiare: investire sull’integrazione, puntando su casa e lavoro, ma con il protagonismo del Comune e con il supporto delle organizzazioni sociali.Don Davanzo, cosa pensa dello smantellamento dei campi? «Siamo d’accordo che questi campi vanno superati, che l’abitare dei rom nei campi non può essere considerato stabile e definitivo. Però va superato verso altre forme di abitazione che siano rispettose della dignità delle persone, anche perché i campi sono nati in una logica emergenziale. Penso a via Novara, una struttura che doveva durare 2-3 anni, ormai sono 10: è assolutamente fatiscente, in condizioni da favelas, pur avendo tutti i crismi dell’autorizzazione. Allora come usciamo dai campi e favoriamo processi per quanto faticosi di integrazione da parte di queste famiglie che ormai non sono più nomadi? La Prefettura e il Comune hanno proposto un’ipotesi di convenzione rispetto alla quale si sono te delle riserve. Abbiamo chiesto alcune garanzie in merito ad aspetti che ci preoccupano». Quali sono le criticità del progetto? «In sintesi le obiezioni sono due. Primo, nella convenzione non emergeva in modo chiaro come favorire processi di integrazione, attraverso risorse adeguate a questo obiettivo che per noi è centrale, perché significa il rispetto della dignità delle persone rom, ma anche degli italiani. Solo se ci mettiamo tutti nella logica di investire il meglio delle nostre risorse nella prospettiva dell’integrazione, possiamo immaginare un futuro che sia di sicurezza per gli italiani e di pacifica convivenza con queste presenze. Se invece ci poniamo soltanto in una prospettiva di chiusura dei campi senza affrontare il secondo fronte della questione, si pongono ancora una volta le premesse per un futuro di conflittualità, di insicurezza, di disagio anzitutto per i cittadini italiani e naturalmente anche per queste famiglie». E il secondo motivo? «Non emergeva in maniera chiara la piena titolarità della Pubblica amministrazione in questo progetto: avevamo la sensazione che Comune e Prefettura enfatizzassero troppo il ruolo delle realtà del privato sociale che gestiscono questi campi e che dovrebbero poi accompagnare all’uscita queste famiglie, quasi che il problema dei rom fosse anzitutto degli enti gestori. Volevamo che il Comune “mettesse di più la faccia” evidenziando il ruolo prioritario delle istituzioni pubbliche alle quali poi si affiancano realtà come le nostre che ormai da anni conoscono le famiglie, le hanno accompagnate, hanno fatto la fatica di stare in questi campi fatiscenti». In particolare su quali questioni chiedete l’impegno del Comune? Su due delicatissime: lavoro e casa. Sulla prima chiedevamo con chiarezza quali strumenti il Comune avrebbe messo a disposizione per favorire l’inserimento lavorativo dei rom, evitando di favorire il fenomeno del “lavoro nero”. Riteniamo che quella di oggi debba essere un’occasione buona per promuovere un salto di qualità anche in termini di legalità, di sicurezza delle condizioni lavorative. La casa è il problema più complesso. Il mercato privato è pressoché inaccessibile a queste famiglie e le case popolari hanno liste d’attesa lunghissime. Era necessario che il Comune assumesse un ruolo più definito nell’individuare le abitazioni per queste famiglie, certo, con la nostra collaborazione che non mancherà. Gli incontri che si sono realizzati negli ultimi giorni ci fanno sperare nella possibilità di una soluzione positiva di tutta la vicenda».