«Siamo assolutamente d’accordo che non si debba gravare esclusivamente sul Comune di Milano, però a questo punto chiediamo che intervenga un livello di governo di pianificazione più ampio, della Provincia e della Regione». Don Roberto Davanzo, direttore della Caritas ambrosiana, avanza questa proposta per cercare di dare una risposta seria alla questione rom, che ormai da tempo crea non pochi disagi ai cittadini, alle famiglie e ai bambini rom.
La politica degli sgomberi dunque non può essere risolutiva, perché si sposta il problema da una via all’altra, creando disagi umani fortissimi a chi tenta anche di integrarsi e invece viene sballottato. Milano e la Lombardia non possono cedere alla demagogia o addossare sulle spalle generose della comunità cristiana la responsabilità di dare una soluzione.
La nuova parola è «alleggerimenti»: continuano infatti gli sgomberi di insediamenti abusivi. Si parla anche di altri tre-quattro campi. Come è possibile andare avanti solo in questo modo?
Occorre distinguere. Un conto sono i campi regolari di via Novara, via Triboniano, via Negretto, via Bonfadini, per i quali c’è un piano di chiusura. Si afferma il principio che l’abitare dei rom non debba essere per forza segregato in campi “etnici” esclusivamente per loro. Ci sono le risorse messe a disposizione dal ministro Maroni ingenti per Milano (oltre 13 milioni di euro). Su questo si tratta di capire dove vengono reperiti gli spazi abitativi alternativi rispetto ai campi attuali e attraverso quali meccanismi si favorisce l’inserimento lavorativo per chi ancora non ha un lavoro o ce l’ha precario. Insomma, c’è da definire bene la progettualità che ha come obiettivo la chiusura dei campi attualmente del Comune di Milano, autorizzati e presidiati socialmente. Su questo c’è la nostra disponibilità a collaborare.
Invece altro discorso sono gli sgomberi degli insediamenti abusivi?
Certo. Le occupazioni abusive di ex aree industriali e capannoni abbandonati sono stati oggetto in questi ultimi mesi di un pressing molto forte da parte del Comune. Si sono susseguiti innumerevoli sgomberi: i più eclatanti sono stati quello sotto il ponte Bacula e l’ultimo che ha riguardato un gruppo significativo di rom romeni (circa 300 persone) in zona Rubattino, che ha suscitato molto scalpore perché i bambini dell’insediamento abusivo in questi mesi avevano sempre frequentato con grande diligenza le scuole della zona. Molte famiglie rom mandavano i figli, le insegnanti si erano affezionate a loro, avevano fatto amicizia con i coetanei italiani e le loro famiglie avevano cominciato a guardare con “occhio benevolo” queste persone. Quindi lo sgombero ha interrotto un processo di integrazione che si stava avviando.
È emerso con evidenza però che il Comune fa sgomberare queste aree, però poi le conseguenze ricadono sulle spalle della Chiesa, del volontariato…
Esatto, chi ha tolto le castagne dal fuoco è stato il mondo del privato sociale, in particolare la comunità cristiana. Questo non può diventare la norma di fronte alle emergenze sociali. Ancora una volta ci siamo trovati a rimboccarci le maniche per risolvere la vicenda, però insieme a richiamare la pubblica amministrazione alle proprie responsabilità che non possono esaurirsi semplicemente con lo sgombero, con l’intervento della forza pubblica, con le ruspe. Queste persone non perché vengono sgomberate da un campo allora fanno i loro fagotti e ritornano in Romania. Questo è un mondo complesso, siamo noi i primi a dirlo, ma non funziona così.
L’altro aspetto è che sono stati accompagnati in una chiesa: non c’è il rischio di una strumentalità?
Non abbiamo perso l’occasione di esprimere tutta la nostra contrarietà, per non dire irritazione, rispetto alla scelta che alcune forze sociali hanno ritenuto di fare nel suggerire a queste famiglie di rifugiarsi all’interno di una parrocchia, consapevoli che una struttura della comunità cristiana non sarebbe mai arrivata a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine per uno sgombero violento. Ma questo non significa che tutte le volte che si verifica un’emergenza sociale per porla al centro dell’attenzione possa essere di buon senso la scelta di andare a occupare chiese, trovandosi poi a dover gestire all’interno delle proprie strutture un’emergenza che non le compete.
Almeno in una parte della popolazione si respira un clima diverso rispetto ai rom, come le famiglie che li ospitano…
Questo è stato un elemento di novità: l’atteggiamento benevolo è scaturito dal verificare nei mesi passati che a fronte di condizioni di vita subumane, perché così si vive nei campi – oltretutto era stata tagliata anche l’erogazione dell’acqua -, ciononostante i bambini frequentavano con entusiasmo la scuola. L’impegno dei genitori a mandarli sui banchi piuttosto che a mendicare è stato un granellino di polvere che ha inceppato l’ingranaggio del pregiudizio.
Quindi se si vuole l’integrazione la strada è coniugare la solidarietà con la legalità…
Chi si permetterebbe mai di immaginare che la legalità e il rispetto della legge non debbano essere affermati in tutti i modi? Da qui quasi l’imbarazzo a dovere ripetere, per l’ennesima volta, dell’accoglienza nella legalità. Il problema lo vedo più complesso, perché al di là del binomio assolutamente scontato, si deve passare attraverso scelte politiche, investimenti economici, che siano capaci di guardare al futuro, di fare i conti con l’effettiva problematicità di queste presenze. Un governo del problema che non può essere affidato solo al Comune di Milano. Potrebbe avere senso dire che la metropoli può accogliere un certo numero di presenze, ma nel momento in cui qualcuno al di sopra del Comune riesca a pianificare una loro equa distribuzione nei territori limitrofi. «Siamo assolutamente d’accordo che non si debba gravare esclusivamente sul Comune di Milano, però a questo punto chiediamo che intervenga un livello di governo di pianificazione più ampio, della Provincia e della Regione». Don Roberto Davanzo, direttore della Caritas ambrosiana, avanza questa proposta per cercare di dare una risposta seria alla questione rom, che ormai da tempo crea non pochi disagi ai cittadini, alle famiglie e ai bambini rom.La politica degli sgomberi dunque non può essere risolutiva, perché si sposta il problema da una via all’altra, creando disagi umani fortissimi a chi tenta anche di integrarsi e invece viene sballottato. Milano e la Lombardia non possono cedere alla demagogia o addossare sulle spalle generose della comunità cristiana la responsabilità di dare una soluzione.La nuova parola è «alleggerimenti»: continuano infatti gli sgomberi di insediamenti abusivi. Si parla anche di altri tre-quattro campi. Come è possibile andare avanti solo in questo modo?Occorre distinguere. Un conto sono i campi regolari di via Novara, via Triboniano, via Negretto, via Bonfadini, per i quali c’è un piano di chiusura. Si afferma il principio che l’abitare dei rom non debba essere per forza segregato in campi “etnici” esclusivamente per loro. Ci sono le risorse messe a disposizione dal ministro Maroni ingenti per Milano (oltre 13 milioni di euro). Su questo si tratta di capire dove vengono reperiti gli spazi abitativi alternativi rispetto ai campi attuali e attraverso quali meccanismi si favorisce l’inserimento lavorativo per chi ancora non ha un lavoro o ce l’ha precario. Insomma, c’è da definire bene la progettualità che ha come obiettivo la chiusura dei campi attualmente del Comune di Milano, autorizzati e presidiati socialmente. Su questo c’è la nostra disponibilità a collaborare.Invece altro discorso sono gli sgomberi degli insediamenti abusivi?Certo. Le occupazioni abusive di ex aree industriali e capannoni abbandonati sono stati oggetto in questi ultimi mesi di un pressing molto forte da parte del Comune. Si sono susseguiti innumerevoli sgomberi: i più eclatanti sono stati quello sotto il ponte Bacula e l’ultimo che ha riguardato un gruppo significativo di rom romeni (circa 300 persone) in zona Rubattino, che ha suscitato molto scalpore perché i bambini dell’insediamento abusivo in questi mesi avevano sempre frequentato con grande diligenza le scuole della zona. Molte famiglie rom mandavano i figli, le insegnanti si erano affezionate a loro, avevano fatto amicizia con i coetanei italiani e le loro famiglie avevano cominciato a guardare con “occhio benevolo” queste persone. Quindi lo sgombero ha interrotto un processo di integrazione che si stava avviando.È emerso con evidenza però che il Comune fa sgomberare queste aree, però poi le conseguenze ricadono sulle spalle della Chiesa, del volontariato…Esatto, chi ha tolto le castagne dal fuoco è stato il mondo del privato sociale, in particolare la comunità cristiana. Questo non può diventare la norma di fronte alle emergenze sociali. Ancora una volta ci siamo trovati a rimboccarci le maniche per risolvere la vicenda, però insieme a richiamare la pubblica amministrazione alle proprie responsabilità che non possono esaurirsi semplicemente con lo sgombero, con l’intervento della forza pubblica, con le ruspe. Queste persone non perché vengono sgomberate da un campo allora fanno i loro fagotti e ritornano in Romania. Questo è un mondo complesso, siamo noi i primi a dirlo, ma non funziona così.L’altro aspetto è che sono stati accompagnati in una chiesa: non c’è il rischio di una strumentalità?Non abbiamo perso l’occasione di esprimere tutta la nostra contrarietà, per non dire irritazione, rispetto alla scelta che alcune forze sociali hanno ritenuto di fare nel suggerire a queste famiglie di rifugiarsi all’interno di una parrocchia, consapevoli che una struttura della comunità cristiana non sarebbe mai arrivata a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine per uno sgombero violento. Ma questo non significa che tutte le volte che si verifica un’emergenza sociale per porla al centro dell’attenzione possa essere di buon senso la scelta di andare a occupare chiese, trovandosi poi a dover gestire all’interno delle proprie strutture un’emergenza che non le compete.Almeno in una parte della popolazione si respira un clima diverso rispetto ai rom, come le famiglie che li ospitano…Questo è stato un elemento di novità: l’atteggiamento benevolo è scaturito dal verificare nei mesi passati che a fronte di condizioni di vita subumane, perché così si vive nei campi – oltretutto era stata tagliata anche l’erogazione dell’acqua -, ciononostante i bambini frequentavano con entusiasmo la scuola. L’impegno dei genitori a mandarli sui banchi piuttosto che a mendicare è stato un granellino di polvere che ha inceppato l’ingranaggio del pregiudizio.Quindi se si vuole l’integrazione la strada è coniugare la solidarietà con la legalità…Chi si permetterebbe mai di immaginare che la legalità e il rispetto della legge non debbano essere affermati in tutti i modi? Da qui quasi l’imbarazzo a dovere ripetere, per l’ennesima volta, dell’accoglienza nella legalità. Il problema lo vedo più complesso, perché al di là del binomio assolutamente scontato, si deve passare attraverso scelte politiche, investimenti economici, che siano capaci di guardare al futuro, di fare i conti con l’effettiva problematicità di queste presenze. Un governo del problema che non può essere affidato solo al Comune di Milano. Potrebbe avere senso dire che la metropoli può accogliere un certo numero di presenze, ma nel momento in cui qualcuno al di sopra del Comune riesca a pianificare una loro equa distribuzione nei territori limitrofi.