«Chiediamo alle istituzioni di offrire alternative allo sgombero, che non sono quelle di un dormitorio per gli uomini e una comunità mamma-bambino per le donne. Bisogna tenere insieme il nucleo familiare che non si vuole separare. Per cui una soluzione proponibile è che si dia una possibilità transitoria e di protezione civile per superare l’emergenza e poi ragionare su percorsi di inserimento individualizzati per gruppi familiari». Parla Valerio Pedroni, referente del progetto Roaming dei padri Somaschi, che da oltre tre anni segue il gruppo rom romeno di via Rubattino.
Innanzitutto la scuola come prima occasione di integrazione…
Certo. La scuola permette di capire che queste persone hanno voglia di portare avanti percorsi positivi di integrazione. Lo sgombero invece crea difficoltà, perché significa dover ricominciare da capo; i bambini che hanno iniziato un percorso devono cambiarlo. Questo è un trauma psicologico molto forte, perché dall’oggi al domani sono costretti a cambiare una situazione positiva nella quale stavano costruendo l’inserimento sociale.
Però si adattano a vivere in situazioni molto precarie…
Sono obbligati a farlo. Anche se tutti loro vorrebbero una situazione migliore evidentemente, solo che ad oggi è stato possibile per pochi, perché noi da soli come organizzazione non ce la facciamo, abbiamo bisogno di un supporto.
In prospettiva la casa popolare?
Credo che ci siano le risorse anche per una casa. Però vanno supportati con tirocini lavorativi, con borse lavoro, con qualcosa che tamponi l’emergenza abitativa e dia la possibilità – acquisendo competenze – di un lavoro, di costruirsi un’autonomia. Io non sono uno di quelli che dicono che deve essere regalata, la casa bisogna conquistarsela, però con gli strumenti necessari.
Qualcuno fa qualche lavoretto?
C’è la voglia di farlo, però arrivando da una situazione come questa è difficile essere accolti sul lavoro, anche proprio a livello di condizioni e apparenze igienico-sanitarie. C’è chi riesce ad ottenere un lavoro in nero, saltuario. Queste situazioni non rendono però facile un inserimento lavorativo pieno, anche perché per un’occupazione sono necessarie competenze: parlo di elettricista, idraulico, muratore. Occorre dare la possibilità di conoscere un mestiere, fare formazione professionale.
Qual è la vostra attività?
Innanzitutto una tutela igienico-sanitaria, dando la possibilità alle donne e ai bambini di fare docce costantemente e controlli sanitari nei loro ambulatori attraverso il supporto dei Fratelli di San Francesco e dell’Opera San Francesco. Poi il lavoro di inserimento scolastico, non perché li abbiamo obbligati, ma ci hanno chiesto loro di portare i bambini. Noi abbiamo fatto da ponte con le scuole. Inoltre quello che cerchiamo faticosamente è costruire percorsi di coinvolgimento della società civile, delle comunità locali, con l’oratorio, con la parrocchia, con la Caritas, con le associazioni di quartiere cercando di sviluppare rapporti positivi.
Esistono iniziative?
Attraverso la conoscenza partono situazioni positive: la scuola sicuramente è il fulcro, perché già i genitori dei ragazzi non rom conoscendo quelli dei ragazzi rom vedono che sono persone normali, con i quali si può parlare. Oppure la partecipazione ad alcune attività dell’oratorio. «Chiediamo alle istituzioni di offrire alternative allo sgombero, che non sono quelle di un dormitorio per gli uomini e una comunità mamma-bambino per le donne. Bisogna tenere insieme il nucleo familiare che non si vuole separare. Per cui una soluzione proponibile è che si dia una possibilità transitoria e di protezione civile per superare l’emergenza e poi ragionare su percorsi di inserimento individualizzati per gruppi familiari». Parla Valerio Pedroni, referente del progetto Roaming dei padri Somaschi, che da oltre tre anni segue il gruppo rom romeno di via Rubattino.Innanzitutto la scuola come prima occasione di integrazione…Certo. La scuola permette di capire che queste persone hanno voglia di portare avanti percorsi positivi di integrazione. Lo sgombero invece crea difficoltà, perché significa dover ricominciare da capo; i bambini che hanno iniziato un percorso devono cambiarlo. Questo è un trauma psicologico molto forte, perché dall’oggi al domani sono costretti a cambiare una situazione positiva nella quale stavano costruendo l’inserimento sociale.Però si adattano a vivere in situazioni molto precarie…Sono obbligati a farlo. Anche se tutti loro vorrebbero una situazione migliore evidentemente, solo che ad oggi è stato possibile per pochi, perché noi da soli come organizzazione non ce la facciamo, abbiamo bisogno di un supporto.In prospettiva la casa popolare?Credo che ci siano le risorse anche per una casa. Però vanno supportati con tirocini lavorativi, con borse lavoro, con qualcosa che tamponi l’emergenza abitativa e dia la possibilità – acquisendo competenze – di un lavoro, di costruirsi un’autonomia. Io non sono uno di quelli che dicono che deve essere regalata, la casa bisogna conquistarsela, però con gli strumenti necessari.Qualcuno fa qualche lavoretto?C’è la voglia di farlo, però arrivando da una situazione come questa è difficile essere accolti sul lavoro, anche proprio a livello di condizioni e apparenze igienico-sanitarie. C’è chi riesce ad ottenere un lavoro in nero, saltuario. Queste situazioni non rendono però facile un inserimento lavorativo pieno, anche perché per un’occupazione sono necessarie competenze: parlo di elettricista, idraulico, muratore. Occorre dare la possibilità di conoscere un mestiere, fare formazione professionale.Qual è la vostra attività?Innanzitutto una tutela igienico-sanitaria, dando la possibilità alle donne e ai bambini di fare docce costantemente e controlli sanitari nei loro ambulatori attraverso il supporto dei Fratelli di San Francesco e dell’Opera San Francesco. Poi il lavoro di inserimento scolastico, non perché li abbiamo obbligati, ma ci hanno chiesto loro di portare i bambini. Noi abbiamo fatto da ponte con le scuole. Inoltre quello che cerchiamo faticosamente è costruire percorsi di coinvolgimento della società civile, delle comunità locali, con l’oratorio, con la parrocchia, con la Caritas, con le associazioni di quartiere cercando di sviluppare rapporti positivi.Esistono iniziative?Attraverso la conoscenza partono situazioni positive: la scuola sicuramente è il fulcro, perché già i genitori dei ragazzi non rom conoscendo quelli dei ragazzi rom vedono che sono persone normali, con i quali si può parlare. Oppure la partecipazione ad alcune attività dell’oratorio.