09/12/2008
di Pino NARDI
In un momento di crisi, di sbandamento e di paure, il cardinale Tettamanzi propone un modello di Chiesa che va controcorrente, che sprona «a essere testimone di un modo diverso di porsi e di vivere nella città terrena, sottolineando la funzione esemplare che dovrebbe avere». Una Chiesa conciliare che fa del dialogo il suo fondamento, una comunità aperta che non sta sulla difensiva. Franco Garelli, sociologo delle religioni, analizza così il volto di comunità cristiana che emerge dal Discorso alla città.
Quale modello propone l’Arcivescovo di Milano?
È un modello di Chiesa che va un po’controcorrente rispetto a varie istanze e condizioni che caratterizzano la città terrena. È il modello di Chiesa che è chiamata a essere simbolo, segno di un modo diverso di vivere la quotidianità e anche i temi, le tensioni e le sfide del tempo presente. Il Cardinale ha quattro punti chiave nel Discorso di Sant’Ambrogio. Il primo è fermarsi un momento: è rivolto a tutta la comunità milanese. La Chiesa fa una proposta di questo tipo, quindi vive in prima persona e testimonia i valori. È un passo indietro, recuperando il senso profondo delle cose e delle relazioni. Secondo, contro le generalizzazioni: evitare quelle indebite, magari sotto la spinta dei media o delle rappresentazioni pubbliche che non rendono conto delle situazioni, dei volti umani, ma tendono a creare paure, allarme e minacce. Terzo, – questo mi sembra un altro aspetto importante – andare oltre la cultura dell’essere isola e contro la soluzione del frammento, del localismo, dei gruppi chiusi, della contrapposizione. Quarto, un grande richiamo alla Milano protagonista “integrale”, non solo dell’Expo 2015, ma anche del volto umano della città.
Il Cardinale propone una Chiesa che annuncia una «verità limpida e forte, coraggiosa e gioiosa» però con uno stile di bontà e mitezza. Insomma, recuperare Roncalli e Montini, rifancendosi a un modello conciliare di Chiesa e di annuncio del Vangelo…
Sì. È un momento di crisi, di reazioni negative, di sfiducia, di contrapposizione, di paura della diversità, di attenzione solo prevalentemente alle strutture o ai problemi materiali. Vorrebbe una Chiesa che vada controcorrente e la categoria che usa è quella del dialogo, disponibile a uscire dalle piccole isole, dai cammini personali o dell’etnie, dei gruppi contrapposti. Le voci in dialogo: certo, una Chiesa conciliare.
Quindi che non sta in difesa, ma si propone…
Sì, non sta in difesa e si propone addirittura di fare da apripista verso una riscoperta più ampia di un modo di stare e di vivere la comunità, che è fatta di riconoscimenti di identità diverse, di fiducia e di ponti.
In questo contesto ha ruolo importante il laicato. C’è bisogno di ulteriore valorizzazione della loro presenza nella Chiesa e nella società?
Direi che c’è molto bisogno. Però sono 40 anni, dal Concilio, che lo diciamo. Quando si parla della valorizzazione dei laici si pensa sempre ai ruoli di supporto della gerarchia o delle strutture. Mentre il ruolo dei laici da valorizzare è sentirli come co-protagonisti, come persone che vengono ascoltate nella progettazione, in quello che vivono, nella loro sensibilità. Poi, per carità, la gerarchia e i Vescovi hanno un certo primato. Credo però che ci voglia un’attenzione diversa, che non è solo di una Chiesa che si pronuncia e del laicato che obbedisce o sta in silenzio. Su molte questioni di grande rilevanza pubblica sarebbe bene avviare luoghi di discernimento e di riflessione – come è stato detto al Convegno di Palermo – in cui i laici che sono dentro le varie realtà testimoniano le proprie convinzioni e contribuiscono a delineare alcune linee che poi ovviamente la gerarchia tradurrà in richiami per tutti. Ci sono molte questioni dove i laici sono molto più competenti. Quindi ci vorrebbe davvero un cambio di registro, perché non basta dire valorizzazione, bisogna vedere poi come ci si rapporta al laicato.
Questa Chiesa che si pone in dialogo si propone al servizio della città dell’uomo, nel rapporto anche con le istituzioni pubbliche e la politica…
Il Cardinale spende anche un po’ di passi per riabilitare la politica, alla luce delle davvero basse considerazioni e immagine tra la gente. Credo che sia uno dei più importanti oggi, perché c’è una sfiducia totale, c’è mancanza di identificazione, anche questa frammentazione e localismo è frutto del debole senso nazionale. Molti danno il meglio di sé al di fuori delle istituzioni, dei luoghi di partecipazione pubblica. Credo che anche qui bisogna proprio invertire le tendenze e sia innanzitutto la Chiesa, intesa come comunità e popolo di Dio, a farsi carico di un esempio in questo campo.
Il Cardinale sottolinea anche il bisogno di interiorità in una metropoli che corre…
Certo, recuperare il senso profondo delle cose, delle relazioni, l’interiorità come condizione di un modo più autentico e genuino di stare nella città terrena. Quindi andare al senso ultimo delle cose, uscire dalla routine, dalla quotidianità e dallo stress. Questo richiama i credenti come i non credenti, ma i primi in particolare, perché noi non possiamo lasciarci travolgere dalla routine, dalla complessità, dalla preoccupazione, dobbiamo recuperare un senso della speranza, anche un distacco fecondo rispetto a un insieme di cose che ci circondano e che ci fanno perdere la bussola. È questo davvero un richiamo alto: è l’interiorità il modo con cui si vivono anche i vari momenti, come l’impegno, le tensioni, le sfide e i drammi. Perché, come dice la Lettera a Diogneto, abbiamo uno sguardo più ampio capace di darci la forza di vivere il tempo presente in modo più profondo e però nello stesso tempo ricordarci che siamo cittadini del cielo. Mi sembra un richiamo anzitutto rivolto ai credenti, ma ricorda anche a molti non credenti – che avvertono di vivere male e a disagio – che non possiamo lasciarci dominare e prendere dalla sfiducia. Bisogna fermarsi un attimo e fare il punto della situazione.