05/06/2008
di Pino NARDI
Il Consorzio “Farsi prossimo” compie 10 anni: è la solidarietà che si è fatta impresa. Promosso dalla Caritas Ambrosiana, oggi è una realtà di 14 cooperative sociali che operano su tutto il territorio diocesano, dando lavoro a circa 800 persone. Ogni bisogno della società trova qui una risposta concreta. Ne parliamo con il presidente, Massimo Minelli.
Qual è stata la scintilla che ha fatto nascere la vostra esperienza?
La scintilla non può che essere il grande evento del 1986: la lettera pastorale Farsi prossimo e il successivo convegno di Assago. Una bella anticipazione del cardinale Martini di riuscire a cogliere i prodromi di quelle che saranno le grandi questioni epocali. La Caritas ha lavorato negli anni successivi cercando di analizzare i bisogni in una città che si andava evolvendo e li ha tradotti nel rafforzamento delle reti parrocchiali e territoriali. Poi con il volontariato e, quando è stata necessaria la continuità e la competenza, con le forme organizzate delle cooperative sociali. A 6-7 anni dalla nascita delle prime cooperative, nel 1998 il Consorzio è stato necessario per tenerle insieme.
Rappresentate dunque un momento di maturità del volontariato…
Nel mondo a cui ci riferiamo, parrocchie e Caritas, ancora oggi volontariato e cooperazione sociale si intrecciano fortemente in molti nostri servizi: dalla salute mentale, agli stranieri, ai rom. Non si trovano solo professionisti, ma anche tantissimi volontari. Un mix virtuoso di questo circuito.
Come sono cambiati i bisogni in questi 10 anni?
Un aspetto che si può ascrivere al Consorzio “Farsi prossimo” è la flessibilità, proprio per rispondere ai bisogni. La società è attraversata dalla globalizzazione, il mondo è più vicino con moltissime diversità. Ancora prima del Consorzio eravamo presenti ad affrontare le iniziali migrazioni. Continuiamo a impegnarci per gli stranieri: non bastano più i centri di prima accoglienza, lavoriamo sulle seconde generazioni, siamo ancora una volta presenti nell’emergenza, ma anche oltre. Pensiamo alla questione della tratta di esseri umani, della prostituzione, dei rom: sempre con il desiderio di continuare a rispondere a quel “farsi prossimo” iniziale che negli anni si è occupato di persone diverse.
Qual è il rapporto con le istituzioni? C’è il rischio di una delega?
Ci teniamo molto, anche perché alcuni di noi hanno avuto esperienze di amministratori locali. Per noi è fondamentale che il pubblico si assuma le sue responsabilità. Non appartiene alla nostra cultura quella di istituzioni che si ritirano, che fanno il regolatore del mercato, che lasciano ad altri tutto l’onere e l’onore di intervenire. Chiediamo invece che faccia la regia, che sia ben presente perché questo deriva dall’investitura popolare. Siamo consci anche del nostro radicamento territoriale, essendo espressione della Chiesa, parte importante della società. Dopodiché abbiamo spesso anticipato e stimolato le amministrazioni e vorremmo lavorare sempre di più con loro, in una coprogettazione e coprogrammazione. Quindi no solo pubblico, no solo mercato, no solo privato. Ma pubblico e privato sociale alleati per affrontare questi problemi.
Il vostro impegno rappresenta una risposta al bisogno di sicurezza?
Certo, a noi piace coniugare il termine legalità, perché riteniamo fondamentale il rispetto delle leggi che spesso in Italia non vengono fatte rispettare. È fondamentale che i territori abbiano cura di loro stessi: penso a una Milano si-cura. Nel momento in cui la complessità viene affrontata nelle sue varie sfaccettature e organizzata bene la modalità di servizi, ognuno si assuma la propria responsabilità. Chi ha la capacità di andare fino all’ultimo cittadino, non dimenticando nessuno – per noi è questa la prossimità – allora affronta questa complessità. E lo si può fare solo con un’organizzazione complessa: solo un’insieme di realtà del pubblico, del privato sociale, del profit, delle parti sociali, sotto la regia di istituzioni sempre più sicure di se stesse, possono determinare quelle condizioni per cui si crea il rispetto della legalità. Se c’è oggi un modo per non creare sicurezza è quello di non affrontare fino in fondo i problemi della città.
Quali progetti per il futuro?
Ci sono attenzioni molto particolari, tra le tante. Per esempio i rifugiati: abbiamo dimostrato che anche le emergenze possono essere dominate. Poi sulla salute mentale, sugli anziani con i servizi di prossimità, sugli inserimenti lavorativi, sui rom, sull’attenzione alla famiglia nelle fasi più problematiche, soprattutto nell’accoglienza di donne e bambini. Abbiamo ancora la voglia di continuare a costruire un pezzo di comunità, di territorio, di welfare, dove tutti possano trovare i loro ruoli e il rispetto dei propri diritti, della propria dignità.