La solitudine, un male dei nostri giorni che pare colpire non solo i malati, ma – sempre più – anche i medici. Se ne è parlato oggi nel convegno progettato dall’Amci (Associazione Medici Cattolici Italiani) di Milano e promosso con l’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri nell’ambito dell’Educazione continua in medicina (Ecm). Assise aperta dall’Arcivescovo e che ha visto la partecipazione di più qualificate voci.
Alberto Cozzi, presidente dell’Amci di Milano, spiega: «La solitudine del medico e, insieme, del malato è una condizione dell’umano ampiamente percepita nella società di oggi, perlopiù in termini negativi, di isolamento, di demotivazione, di disimpegno molto forte, per arrivare, talvolta, anche alla disperazione».
Un aspetto che incide quindi anche sulla classe medica?
Sì, certo. Una classe che appare sempre più disorientata e frastornata perché fare il medico oggi è molto difficile, non avendo più un paradigma di riferimento chiaro, classico. Di fronte alle continue novità della complessità clinica e della gestione della salute, ai problemi economici, alle pressioni del mercato e all’organizzazione sanitaria, il medico vive sempre più una fatica grande, che si manifesta spesso in un disagio esistenziale, comportando una sofferenza che si traduce in conflitto e in un inasprimento delle relazioni. L’impoverimento della relazione di cura si traduce così, sempre più spesso, in un abbandono della professione. Nei congressi medici si parla tanto di burn-out: significa che nella nostra categoria è diffuso un esaurimento profondo.
Qualche tempo fa l’Arcivescovo ha scritto una lettera proprio ai medici, dal titolo «Stimato e caro dottore…». Quale la ricezione di questo scritto?
L’Arcivescovo ha avuto uno sguardo sicuramente inedito, ma anche molto lucido sull’attività della medicina e sulle problematiche a essa connesse. Ha toccato punti davvero interessanti relativamente alla difficoltà e alle contraddizioni che possono sottostare all’esercizio della medicina, offrendo tuttavia una prospettiva di speranza e non di lamentela, di accusa, di preoccupazione fine a se stessa. La visione da lui proposta è quella su cui vogliamo interrogarci, per proporre una lettura positiva anche del tema della solitudine come capacità – che lo stesso Arcivescovo, peraltro, segnala nella sua lettera – di stare soli con se stessi, per poter leggere la propria identità, per ricercare un senso e un significato all’agire del medico. E questo in un equilibrio delicato fra solitudine e compagnia dell’altro, di cui abbiamo comunque bisogno. Dobbiamo puntare su una riscossa dell’umano a tutto tondo, rivedendo la figura di un medico nuovo, non in chiave nostalgica, ma aperta anche all’innovazione tecnologica, che non deve spaventare, ma deve essere interpretata sempre a garanzia dell’umano.