Ripercorre le varie fasi della pandemia e ciò che è avvenuto negli istituti di pena milanesi Francesco Maisto, garante dei diritti delle persone private della libertà a Milano, che si occupa di San Vittore, Opera, Bollate e del carcere minorile Beccaria. Parla dei primi disordini scoppiati l’8 e 9 marzo scorso a San Vittore e Opera: nel primo istituto la calma è tornata senza grandi problemi e soltanto con danni alle cose, mentre nel secondo «c’è stato un approccio violento per riportare l’ordine». Quello che lo ha «addolorato molto», anche nei mesi successivi, «è stata la punizione collettiva, anche a persone che non avevano partecipato alla rivolta – ammette -. Sono dovuto intervenire più volte, perché negare la possibilità di fare la spesa, concedere solo ad alcune celle la possibilità di avere le sigarette, ridurre ogni tipo di colloquio è stato punitivo oltre ogni misura. E poi diversi detenuti non hanno potuto beneficiare di misure alternative al carcere, seppure fossero previste nei due provvedimenti del governo».
Quali sono state le richieste più frequenti che le sono arrivate?
Nella prima fase c’è stata una grande paura da parte dei detenuti per la loro sorte e per le condizioni delle loro famiglie e dei figli. Non ricevevano informazioni. Ho ricevuto mail di genitori di detenuti giovani, soprattutto di tossicodipendenti o con problemi di salute mentale, che non sapevano più nulla dei loro figli. Quando li abbiamo rintracciati, soprattutto grazie all’impegno degli operatori di San Vittore, sono stati estremamente grati. Abbiamo svolto un ruolo di cerniera tra l’interno e l’esterno, poi c’è stata un’attività di collaborazione e stimolo con l’Amministrazione penitenziaria per assicurare i collegamenti: in alcuni istituti sono stati distribuiti addirittura gli iphone per le videochiamate, in altri è stato attivato l’uso di skype.
E ora?
La paura sottotraccia continua. Non ne siamo ancora fuori. Nonostante l’Amministrazione penitenziaria della Lombardia sia stata la prima in Italia ad adottare alcune misure (hub a San Vittore e a Bollate, reparti di isolamento per le quarantene e triage), c’è stata poi la seconda fase. Il Covid è arrivato addirittura nel reparto 41 bis di Opera, che dovrebbe essere quello di massima sicurezza contro l’evasione, ma anche in termini di protezione sanitaria. Per noi è stato importante verificare che non venissero violati i diritti fondamentali. Nei mesi scorsi in alcuni casi siamo riusciti a sbloccare la situazione dei detenuti in permesso premio di Opera, Bollate e San Vittore, e dei semiliberi. Non solo. In Lombardia il sovraffollamento degli istituti penitenziari è superiore a quello di altre regioni e ora con la pandemia bisogna trovare spazio e assicurare il più possibile il distanziamento fisico.
Cos’altro ha rilevato in questi mesi?
Altra situazione grave imposta dal Covid è stato l’allontanamento degli operatori introducendo lo smart working. Eppure occorre un incontro ravvicinato per osservare un detenuto, valutare il suo percorso e una revisione di vita per poi inviare la relazione alla Magistratura di sorveglianza; questo per molti non è ancora possibile. Il confinamento nelle celle per certi aspetti è giustificato e tornare alla sorveglianza dinamica cui si era abituati in molti istituti non è oggettivamente possibile. Però bisogna operare perché si creino le condizioni logistiche affinché i detenuti possano muoversi di più all’interno.
Anche il volontariato penitenziario ha sofferto…
Per un breve periodo c’è stata l’esclusione, come per tutti. Le restrizioni non sono state uguali nei vari istituti. A San Vittore per esempio è stato assicurato il servizio del guardaroba da parte della Sesta Opera, anche se i volontari erano ridotti di numero e non potevano incontrare direttamente i nuovi giunti per sapere che cosa avevano bisogno. L’obiettivo è che le associazioni di volontariato facciano la loro parte e svolgano le attività secondo le proprie finalità, però pensare di fare tutto come prima è impossibile. Si dovranno riorganizzare gli spazi e inventare forme nuove, anche per evitare che i detenuti rimangano in ozio, buttati sulle brande all’interno delle celle.