Sopra il rumore dei treni in partenza, sotto, Binario 21 della Stazione Centrale, da cui 77 anni fa partì, destinazione Auschwitz, Liliana Segre, una delle pochissime sopravvissute dei 600 ebrei milanesi deportati il 30 gennaio 1944. E mentre lei – senatore a vita della Repubblica, peraltro sotto scorta per le minacce – oggi ricorda, lo sferragliare dei vagoni del Terzo millennio mette ancora i brividi, presso il Memoriale della Shoah nato proprio nel luogo del terribile binario, nel sottosuolo, dove di solito, allora, venivano caricate merci e bestiame.
È la memoria della deportazione da Milano che, la Comunità di Sant’Egidio e la Comunità ebraica di Milano promuovono, dal 1997, quando, tra muri scrostati e le tracce ancora evidenti di un luogo abbandonato, il Memoriale era ancora solo un sogno e un progetto.
Quest’anno non ci sono centinaia di persone, i numeri sono contingentati per la pandemia, ma non mancano giovani e autorità, tra cui il sindaco di Milano, Beppe Sala, il sottosegretario Alan Rizzi, in rappresentanza della Regione Lombardia, i vertici di Sant’Egidio, con il presidente di Milano Giorgio Del Zanna, Milo Hasbani, presidente della Comunità Ebraica cittadina, Giorgio Mortara vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Roberto Jarach, presidente del Memoriale. L’Arcivescovo, il rabbino capo di Milano, Alfonso Arbib, Andrea Riccardi, fondatore di “Sant’Egidio”, Mauro Palma, presidente del Garante nazionale per i detenuti, portano i loro messaggi in video collegamento.
Del Zanna, in apertura, osserva: «Questa memoria milanese continua a parlare alla città. La pandemia ha mostrato quanto, nello smarrimento, torni l’antisemitismo, gli ebrei come capro espiatorio. Tutto questo ci conferma nel valore di questa memoria». Parole cui fa eco Jarach annunciando il termine dei lavori del Memoriale previsto per fine giugno prossimo, con il completamento della biblioteca.
Rav Arbib cita un Midrash, che riguarda l’antica persecuzione in Egitto quando il faraone chiese a tre saggi la loro opinione. Uno si disse contrario, il secondo appoggiò la scelta, il terzo tacque.
Chiara la metafora per il presente: «C’è – osserva Arbib – chi si è opposto e ha tentato di salvare vittime: sono raggi di luce in mezzo al buio, a cui essere eternamente grati. Poi ci sono i collaboratori del nazismo, anche saggi che collaborarono. E, infine, c’è chi sta in silenzio, forse perché non serve a niente, perché le conseguenze possono essere addirittura più gravi, magari dannose per lo sforzo bellico, come fu detto dagli alleati. Questo è stato un atteggiamento diffuso, anche tra esponenti religiosi, che deriva da una scarsa empatia, non sentendo sufficientemente il dolore degli altri, altrimenti non si riesce a stare in silenzio. Su questo bisogna riflettere perché tale atteggiamento non riguarda solo la Shoah e il passato, ma è un problema generalizzato».
Il messaggio dell’Arcivescovo
Commosse le espressioni del vescovo Mario che parla davanti al busto del suo predecessore, il cardinale Schuster che tanto si adoperò durante la guerra, da essere chiamato “Defensor civitatis”. «Mi è chiesto di inviare un messaggio, ma per me sarebbe meglio ascoltare. Ascoltare la voce di Liliana Segre e la sua memoria, ascoltare la voce delle cose, degli oggetti che fanno di uno squallore una dolorosa memoria. Mi è chiesto di inviare un messaggio, ma per me sarebbe meglio sostare in silenzio, lasciare che le vicende continuino a lacerare l’anima con le domande: come è stato possibile?
Sarebbe meglio esplorare l’enigma incomprensibile ed evidente dell’indifferenza, delle possibilità di estraniarsi da quello che succede, di considerare estranee le persone con cui si scambia ogni giorno un saluto, con cui si chiacchiera, per strada, in ufficio, a scuola».
«Sarebbe meglio trovare lacrime per piangere e condividere la memoria dolorosa di chi ha vissuto il dramma irrimediabile. Mi è chiesto di inviare un messaggio ai presenti a questo evento, ma sarebbe meglio riuscire a portare un messaggio a coloro che ignorano questo luogo e questa storia; che vivono questi giorni tribolati troppo preoccupati per sé, senza lasciarsi toccare dalla compassione, dalle domande, dagli allarmi che percorrono la terra. Sarebbe meglio imparare e insegnare a pregare ancora, perché il Dio d’Israele, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo si riveli misericordioso e potente, anche lui straziato e sdegnato per il fratello che uccide il fratello e si riveli sapiente e principio di sapienza, per seminare ancora speranza nei giorni dei suoi figli».
L’intervento del sindaco di Milano
«Noi milanesi ci siamo abituati all’idea che Milano sia diventata una città bella e questo è uno dei luoghi della bellezza perché porta un messaggio che va dalla morte ala vita. Vita che nasce dai tanti visitatori giovani, da chi raccoglie, qui, cibi e coperte per i senzatetto, da coloro che nel Memoriale hanno accolto i migranti», scandisce il primo cittadino, aggiungendo una parola «che – spiega – mi è cara: consapevolezza».
«Dobbiamo essere consapevoli che Milano offre molte opportunità, ma dobbiamo anche essere all’erta per la pandemia e per la confusione a cui possono essere esposti i giovani. Fare memoria è allora fondamentale per il futuro. Questo è il luogo del riscatto per Milano, perché non dobbiamo dimenticare che a Milano è nato il fascismo e che i pericoli per quella sciagura storica non sono finiti: mi batterò con tutte le mie forze per far sì che quelle forze politiche che accettano al loro interno persone che fanno saluti romani in luoghi sacri come i Consigli comunali, non abbiano spazio a Milano. Lo dico con grande determinazione perché è questo faccio politica. Sono fiero di essere un uomo milanese».
Tra brani eseguiti dal musicista rom Jovica Jovic e dagli studenti del liceo “Carducci”, si prosegue. Alan Rizzi, portando il saluto del presidente Attilio Fontana e ricordando l’incontro di 50 consoli svoltosi presso il Memoriale 2 anni fa, ribadisce l’impegno di Regione Lombardia. «La memoria e il filo che lega le nuove generazioni e questo ci dà garanzia che ciò che è accaduto non possa più succedere», dice.
Infine la senatrice Segre che definisce quello della memoria a Binario 21, «un appuntamento imperdibile».
«All’inizio quando in pochi, pochissimi eravamo qui, con una candelina in mano – il ricordo va al cardinale Martini e al rabbino Laras -, non c’era bisogno di parlare. Poi si è fatto tanto lavoro e, oggi, sono migliaia i ragazzi che hanno visitato il Memoriale. Ho voluto questo muro (quello all’ingresso su cui è incisa la parola “Indifferenza”) perché porta ai vagoni e segna il passaggio dalla vita civile e normale a quello che è successo qui dentro. È qualcosa che colpisce i ragazzi ed è il modo migliore per arrivare a dei vagoni che qualcuno ha osato definire folkloristici, ma che sono tragicamente quelli».
«600 persone furono portate qui da “San Vittore”: io sono stata in quelle celle 40 giorni, per questo mi batto perché siano vaccinati i carcerati. Sono stati loro, i detenuti, allora a darci l’ultimo saluto con umanità facendoci sentire ancora persone. Eravamo merci, vitelli destinati al mattatoio. Nessuno ha fermato i camion che ci portavano alla Stazione. L’indifferenza porta alla violenza, come furono violenti non solo i nazisti, ma anche i fascisti che urlavano e ci insultavano, magari nostri vicini di casa. Mi domando: dove ero il 31 gennaio 1944? Ero in treno, avevamo passato il confine e, quando si capì che non era più Italia, vi furono pianti e disperazioni, il mio rannicchiarmi nelle braccia di mio padre che rimangono indimenticabili. Il 30 gennaio 1944 ero ancora a Milano, la mia città, il 31 ero già una ragazza vecchia che cercava di avere quella forza che hanno gli adolescenti che possono cambiare il destino loro e dei loro genitori spesso deboli».
Infine, il minuto di silenzio e, ancora, il rumore, in tempo reale, dei treni che passano, come ogni giorno, sopra il Memoriale.