C’è sempre “qualcosa di diverso” nella storia scritta dalle donne. È tornato questo convincimento, sabato 19 ottobre a Milano, ai “funerali civili” di Lea Garofalo uccisa nel 2009 da assassini che della mafia hanno fatto e fanno una bandiera intrisa di sangue, in gran parte di sangue di innocenti.
Una donna del Sud nella sua fragilità fisica ha avuto la forza di opporsi, da sola, alla violenza e al crimine. Ha avuto il coraggio di rompere quel cerchio maledetto in cui, nonostante il passare di molto tempo, i cosiddetti “uomini d’onore” tengono persone e famiglie sotto minaccia di morte o di schiavitù.
Si è opposta alla menzogna, ha strappato la maschera alla ‘ndrangheta. «Sono una mamma disperata» aveva scritto nella lettera, mai spedita, al Presidente della Repubblica per chiedere «un segnale di speranza» per sé e per le tante persone che si trovavano nella sua stessa terribile condizione di testimoni di giustizia.
Lea Garofalo ha avuto la forza di gridare che la parola “onore” in bocca ai mafiosi è una miserabile menzogna.
Il “qualcosa di diverso” sta proprio nella ribellione di una donna all’uomo che aveva amato e con il quale aveva messo alla luce una figlia, Denise, costretta ora a subire lo stesso regime di protezione. Quella donna si era rivoltata contro la spietatezza di chi per mantenere un potere non ha esitato e non esita a cancellare con sconvolgente brutalità anche l’amore tra marito e moglie, tra figli e genitori.
Non è stata e non sarà l’ultima donna a levare un grido che, pur soffocato con bestiale violenza, dovrebbe inquietare la coscienza dell’opinione pubblica e delle istituzioni. È don Luigi Ciotti a mandare un monito perché quell’urlo non muoia nel deserto dell’indifferenza e del pessimismo. «Oggi non basta parlare di verità, dobbiamo cercarla. La memoria ci sfida all’impegno, ci commuove e ci fa muovere»: sono parole che vengono dal sacerdote fondatore di Libera, l’associazione che da anni contrasta sul piano culturale quel devastante furto di dignità che la criminalità organizzata compie per raggiungere i suoi obiettivi immorali e illegali.
“Vedo sento parlo” era scritto sulle bandiere di Libera che sabato rilanciavano il volto di questa donna del Sud che ha osato dire che combattere il male e la menzogna è difficile ma è possibile. È dovere di tutti e non di pochi.
Quale attenzione riceverà la pagina di storia scritta da Lea Garofalo in questo nostro Paese scosso dal vento di interminabili crisi? Quale sorte avrà il messaggio della figlia Denise che aveva chiesto i funerali della mamma a Milano anche per richiamare il legame che unisce il Nord al Sud nella lotta a un nemico che si infiltra ovunque come in questi giorni attesta il commissariamento di un Comune poco distante dalla stessa Milano?
Difficile rispondere anche perché le gravi preoccupazioni economiche di oggi sembrano ridurre nell’opinione pubblica l’allarme sulla mafia: un calo di attenzione molto pericoloso perché la criminalità organizzata approfitta sempre dei momenti più difficili per rafforzarsi e consolidarsi come cancro che mina la salute del Paese e contribuisce a impedirne la ripresa.
C’è però questa donna del Sud a dire che al potere del male si può porre un argine se si tengono indossate, culturalmente e politicamente, quelle magliette con la scritta “Uccideteci tutti” che molti ragazze e molte ragazze del Sud hanno portato e ancora portano per dire la loro rabbia, la loro indignazione contro la menzogna e per dire il loro amore e il loro impegno per la verità.
Lea Garofalo lo conferma: nella storia scritta dalle donne c’è sempre un supplemento di sofferenza, di amore e di speranza; una mano leggera ma insistente che bussa alla porta della coscienza dell’opinione pubblica e delle istituzioni.