I gonfaloni, a decine, dei luoghi di origine di coloro che non ci sono più – le autorità civili, i sindaci di piccoli centri o della grande Milano, in prima fila siedono Pisapia e Albertini, i consoli dei Paesi scandinavi da cui provenivano molte delle vittime non italiane, le bandiere, anche quella degli Stati Uniti e il Duomo come avvolto da un velo di tristezza, non riescono a spiegare ciò che si vede guardando negli occhi, solo per un attimo, chi a Linate, un lunedì mattina di 10 anni fa, ha perso un pezzo del suo cuore, con un marito, una moglie, un figlio o magari un papà che sono mai tornati a casa.
È così quando il dolore è una ferita che sanguina ancora da quell’8 ottobre 2001 e il ricordo dei 118 morti della tragedia più grave nella storia della nostra aviazione, non si spegne pur nella casa del Signore dove il cardinale Scola presiede la celebrazione di suffragio le vittime.
Riempiono la Cattedrale i parenti venuti da ogni parte d’Europa, ma anche d’oltreoceano, e quanti in quelle ore convulse cercarono di dare il meglio di sé, i vigili del Fuoco, i volontari delle ambulanze, le crocerossine, la Protezione civile, le Associazioni. E ancora c’è la gente comune, la Milano di tanti semplici cittadini che non ha e non vuole dimenticare, c’è, sull’altare maggiore, accanto a tanti altri sacerdoti, l’Arcivescovo che così come 10 anni fa l’allora cardinale Martini – quando nelle prime ore del dramma volle recarsi personalmente a Linate – ha la voce commossa.
«Dieci anni or sono la notizia del terribile incidente nell’aeroporto di Linate lasciava tutti noi increduli e feriti», dice, «increduli di fronte alle dimensioni di un disastro che appariva assurdo: com’era possibile che all’alba del terzo millennio, avendo a disposizione sistemi tecnologici sempre più sofisticati, accadesse una cosa del genere?». Dramma che, pure, se la morte ha in certe occasioni l’aspetto di un «omicidio che giunge nella notte», non è mai «la parola definitiva», per quella speranza «che passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente», nota subito dopo il Pastore. È la speranza che ci viene dalla croce di risurrezione, ma anche di una precisa responsabilità umana. Lo scandisce il Cardinale: «Da quella tremenda ferita è nata una responsabilità: ecco il senso ultimo del dolore per chi resta. Una responsabilità di alta cultura civica: di questo ha bisogno la nostra società oggi, di uomini e donne che sanno trasformare anche la disgrazia in un principio di costruzione, in un lavoro indomito».
Poi la conclusione, letta anche, significativamente, in inglese: «In questo anniversario doloroso, implorando dal Signore e dalla nostra amata Madonnina la grazia del conforto e della compagnia per tutti i familiari, la Chiesa vuole accompagnare il vostro cammino. Anche noi, come gli apostoli nei primi giorni, non abbiamo altro da condividere con voi se non la dolce speranza che ci anima: in Cristo tutti riceveranno la vita».
Poi, i 118 nomi che risuonano tra le navate del Duomo, attraverso diverse voci – inizia il sindaco di Milano – e un crescendo di commozione, che trova la sua più bella espressione nel famoso scritto di Agostino, “La morte non è niente”, anche questo letto nelle due lingue.
E alla fine è il cardinal Scola che si avvicina e saluta l’unico sopravvissuto di quella mattina di sangue Pasquale Padovano – poco prima, nella sua omelia, chiamato “carissimo” – e, tra gli altri, Paolo Pettinaroli, presidente della “Fondazione 8 Ottobre. Per non dimenticare” .
Fuori dalla Cattedrale , il sindaco Pisapia nota che «oggi Milano ha, grazie all’attenzione nata dopo quella tragedia, gli aeroporti più sicuri al mondo», mentre poco più in là il suo predecessore Albertini, non riesce a nascondere le lacrime per quella che definisce «la prova più difficile che ho dovuto superare nei nove anni da sindaco».