Nelle scorse settimane sgomberi ripetuti si sono verificati, ad opera della Polizia locale di Milano, sotto i tunnel stradali della Stazione Centrale. Scopo delle reiterate operazioni: allontanare dai marciapiedi, luogo oggettivamente pericoloso e insalubre, alcune decine di persone senza dimora che vi avevano cercato riparo e vi avevano insediato i propri giacigli.
Perché tornano
Allontanati dai “ghisa” due, tre volte, gli homeless sono puntualmente ritornati. E non è escluso che lo facciano anche dopo l’ultimo intervento, avvenuto a fine gennaio. La loro ostinazione non deve sorprendere: il “popolo della strada” ha una composizione variegata e complessa, che non si può ridurre vagheggiando soluzioni definitive dei problemi, accettate in egual misura da tutti i soggetti costretti a una vita di strada. Marginali “cronici”, sospettosi di ogni rapporto con le autorità pubbliche, psichiatrici, stranieri irregolari… le storie e le condizioni di vita sono diverse e – pur approdando sui medesimi marciapiedi – vanno avvicinate per quanto possibile con strategie diverse.
Chi sono
Come affrontare dunque la questione? Cominciando a domandarsi chi sono davvero le persone in strada (non solo quante sono). Servirebbe un nuovo censimento (l’ultimo, RaccontaMI, risale al 2018), i cui esiti permetterebbero di orientare meglio gli interventi, precisandoli in funzione delle caratteristiche (età, provenienza, condizione giuridica, nazionalità, stato di salute…) di chi, oggi, a Milano, in quei luoghi precisi, “abita” la strada.
Interventi professionali e sanitari
Appare inoltre fondamentale l’intensificazione del lavoro in strada. Non solo quello delle unità mobili (destinate a funzioni di presidio e di riduzione del danno, tramite la distribuzione di generi di prima necessità). Ma soprattutto quello consentito da interventi professionali, condotto da équipe multidisciplinari composte da educatori, mediatori e psicologi-psichiatri, sviluppato in rete con le unità mobili generiche e specialistiche (soprattutto sanitarie).
Indispensabile è poi sollecitare le istituzioni sanitarie, in particolare quelle che si occupano di dipendenze e disagio psichico, affinché affrontino anche il disagio di chi sta in strada, e che è spesso fattore causale, non solo conseguenza, della marginalità estrema. I servizi per le dipendenze e il disagio psichico (spesso le due cose vanno insieme) non “escono” dalle loro strutture; troppo spesso si assiste a rimpalli di competenze che rinviano la persona in difficoltà da uno sportello all’altro, finendo per privarla del diritto alla cura. E ciò vale solo per chi riesce ad arrivare ai servizi…
Il modello Housing First
La Milano capace di innovazione deve inoltre rilanciare, sul versante della lotta all’homelessness, il modello Housing First. In città si sperimenta da alcuni anni, ma gli appartamenti resi disponibili sono ancora troppo pochi e l’investimento limitato. È tempo di andare oltre la sperimentazione, e di rendere ordinario e centrale un approccio che ha nella disponibilità di un alloggio il punto di partenza, e non di approdo, di percorsi individuali di risalita e autonomia.
Per arrivare a tanto, occorre convincersi che le strutture collettive di bassa soglia, pur necessarie, non sono adatte a tutti. Non è solo un problema di qualità dell’offerta (che pure in alcuni casi c’è); è proprio il modello collettivo a limitare fortemente le possibilità di accesso (dipendenze e disagio psichico sono spesso incompatibili con le regole delle strutture di accoglienza), o trova l’opposizione delle stesse persone in strada, che preferiscono, piuttosto, rimanere all’addiaccio.
Infine c’è il grande tema, rimosso, della irregolarità di molte persone che stanno in strada. È la spia del fallimento di tanti aspetti delle politiche e delle attuali leggi sull’immigrazione. Per quanto si fatichi ad ammetterlo, l’apparato normativo produce marginalità e rende molti “invisibili sociali” e del diritto. La giostra degli sgomberi finisce per essere uno sterile corollario di tale fallimento.