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Riflessione

Garzonio: «Ognuno è responsabile di sé e dei destini comuni»

Il Rapporto sulla Città 2019 si apre, come di consueto, con l’introduzione curata dal Presidente della Fondazione Ambrosianeum. Ne pubblichiamo un ampio estratto

di Marco GarzonioPresidente Fondazione Ambrosianeum

7 Luglio 2019
Marco Garzonio con l'Arcivescovo

La città ha un’anima in quanto essa è il respiro del tempo. Se quel soffio non spira nella libertà e nella condivisione, se la città non è pensata e amata viene sfruttata per interessi di parte, le istituzioni son piegate al servizio di interessi particolari, chi la abita è disorientato, si fa rancoroso, incattivito, infelice. Credo che dalla preoccupazione di un rinnovato modo di vivere la città sia partito l’arcivescovo Delpini intitolando il Discorso di Sant’Ambrogio dell’anno scorso Autorizzati a pensare.

Questa mia riflessione vuole offrire spunti a riconsiderare la città. Prendiamo una delle due vie tra cui il Deutoronomio (30,15) ci ricorda dobbiamo scegliere. Viviamo il “tempo di mezzo”, ci attestiamo tra ciò che non è più e quel che ancora non è, siamo ciò che siamo stati e ci prepariamo a quel che saremo, con riconoscenza verso chi ci ha preceduti, scommettendo su chi seguirà. All’imbrunire ci prepariamo al tramonto e alla notte. Nel buio, nel sonno, nei sogni ci interroghiamo su “a che punto è la notte”, la notte che incombe quando la città smarrisce l’anima e diffida, respinge, emargina, perseguita, su sollecitazione magari di strumentalizzazioni politiche. Ma la notte è pure sogno, è affidamento alla potenza del Sepolcro Vuoto. Allora ci disponiamo a godere dei colori dell’aurora, a risorgere. Il “tempo di mezzo” assume la connotazione di “tempo dell’attesa”.

Soggetti del cambiamento

Se vegliamo, se siamo “sentinelle del mattino”, ci poniamo nelle condizioni di ritrovarci pronti al cambiamento possibile, mettiamo le basi per essere noi soggetti del cambiamento: ciascuno dotato di “personalità autonoma” all’interno di una “comunità consapevole”. Sviluppo del singolo e crescita di una vita buona a livello sociale sono aspetti di un’unica realtà: l’uomo adulto, riunificato con se stesso, responsabile di sé e dei destini comuni.

L’attesa è l’opposto di passività, indifferenza, apatia, rassegnazione, vivere alla giornata, adattamento a ciò che in qualche modo comunque appaga. L’attesa è uno stato della psiche, una disposizione d’animo di natura caratteriale, ma è anche il frutto di un orientamento deliberato. È un investire le energie, finalizzare gli sforzi, puntare su qualcosa e su qualcuno. Attendere è uno scegliere di stare nel tempo con l’aspirazione di dare un proprio contributo peculiare alla determinazione del corso del tempo, è un “tendere a”, “tendere verso”, “sforzarsi”, “dirigersi”.

Le tensioni personali e quelle condivise costituiscono i tempi. In un fantasmagorico gioco di rimandi tra fattori psichici individuali e collettivi i tempi creano opportunità per singoli, gruppi, comunità. Di tempi vive e si nutre la città. E noi, se ci disponiamo in consonanza con l’anima di questa. Dipende dalla voglia di ciascuno e dalla capacità di mettere insieme le idealità, dipende dagli Io che accettano umilmente di trasformarsi in Noi l’essere attenti e cogliere le occasioni, valutarne la fattibilità, strutturare modi e tempi di realizzazione, volgerle al bene.

Atteggiamenti perversi

Una vigilanza pigra, svogliata, remissiva finisce per assecondare le identificazioni proiettive, lasciare che qualcuno peschi a piene mani nei pozzi neri dell’inconscio collettivo, diffonda i germi patogeni delle infezioni psichiche, ammorbi la convivenza, metta in campo almeno un paio di atteggiamenti perversi per sé e per la comunità, tanto più distruttivi quanto più sono inconsapevoli e quindi espressi con sfrontata arroganza.

Il primo: nutrire e alimentare risentimenti invidiosi verso chi è venuto prima, squalificarlo, additarlo come causa di qualunque nequizia, emettere proclami del tipo: «Abbiamo abolito la povertà» o «Porti chiusi». Il secondo: cavalcare paure di sapore arcaico, scaricare la responsabilità dei nostri mali su altri che hanno l’unica colpa di essere diversi da noi per etnia, colore della pelle, fede religiosa, consuetudini culturali, sesso. Le infezioni psichiche fanno ammalare l’anima della città, rendono la convivenza astiosa.

Ogni tempo può esser tempo di trasformazione, di cambiamenti nella costruzione di relazioni affettive, nel lavoro individuale e nei processi produttivi, nella distribuzione delle ricchezze, nell’espressione delle rappresentanze politiche e nell’esercizio della libertà d’opinione, nella formazione dei modelli di moralità pubblica, nelle concezioni del bello, nell’elaborazione dei linguaggi espressivi e dell’arte, nei vissuti religiosi, nelle visioni sull’aldilà, nel rapporto con la morte. Dipende dalla prospettiva da cui ci poniamo, dal valore che diamo alla presenza della persona umana, dalla fiducia che attribuiamo all’apporto che essa naturalmente può offrire per il solo fatto di essere uomo o donna, bambino o anziano, concittadino o straniero, istruito o ignorante, intelligente o poco dotato. L’anima della città è complessa, articolata, pluriculturale, multietnica: quante più sono le componenti che si fondono tanto più essa è una.

Seminare speranza

È la tensione verso l’“oltre” che tocca osare ogni giorno, per uscire da noi, essere uomini e donne del nostro tempo, viverlo senza subirlo, senza nascondersi dietro a convenienze contrabbandate per impossibilità, perché il nostro lavoro sia una pratica buona, di servizio agli altri, oltreché a noi.

E sia davvero d’aiuto nel costruire un mondo in cui vivere con dignità, orgoglio, passione! E seminare speranze. Essere parte attiva e sognante del cambiamento: immaginato e possibile. Essere cittadini, parte viva dell’anima della città. Di una Milano nuova.

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