Una delle più avventurose imprese dell’eclettico don Andrea Ghetti – aquila randagia con il nome di Baden, sacerdote ribelle per amore, fondatore in Italia della branca scout rover e scolte, parroco di Santa Maria del suffragio a Milano, amico personale di Paolo VI e primo direttore del mensile diocesano «Il Segno» – fu senz’altro l’organizzazione della «Freccia Rossa della bontà», nel 1949. Un viaggio di 8000 chilometri compiuto da una trentina di scout in sella ai “Guzzini”, le moto leggere da 65 cc, rosse fiammanti, ultimo modello della Moto Guzzi di allora. Meta: la città di Skjåk in Norvegia, sede del Rover Moot 1949, il primo raduno mondiale di rover dopo la guerra. Fu un’impresa eccezionale, che aveva due scopi precisi: lanciare un messaggio di pace e unità, attraversando un’Europa appena uscita dalla guerra, e “sponsorizzare” e sostenere la neonata Opera al servizio dei mutilatini di don Carlo Gnocchi, grande amico di don Ghetti.
Quest’estate, a 75 anni da quell’impresa, un gruppo di scout provenienti da Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia, oltre che da Africa e Medio Oriente, ha voluto ripetere l’impresa (qui la pagina web) in occasione di un altro raduno scout, di nuovo in Norvegia. A Stevanger, infatti, dal 22 luglio al 1° agosto, 5000 scout di 38 nazionalità si sono ritrovati per il Roverway, l’evento europeo a cadenza quadriennale dedicato alla fascia 16-22 anni, quella appunto dei rover e delle scolte.
Guidati dai capi-campo Noemi Ruzzi e Roberto Cociancich, sono partiti il 19 luglio dal Cortile della Rocchetta al Castello Sforzesco di Milano, proprio come i loro predecessori della «Freccia Rossa», in sella a 20 Vespa 125cc, ovviamente rosse. In 10 giorni hanno percorso 2700 km e attraversato 9 Paesi per portare l’attenzione dell’opinione pubblica sul problema dei minori stranieri non accompagnati, come è spiegato da don Gino Rigoldi nella lettera (leggi qui il testo) che ha scritto per accompagnare l’impresa.
Perché proprio i minori stranieri? Ce lo spiega – con un filo di voce, a causa del mal di gola che si è portato a casa dopo l’impresa – uno degli organizzatori, Enrico Gussoni, capo del «Busto 3», il gruppo scout che nel 2014 pubblicò il libro La Freccia Rossa – 1949: diario di un’impresa scout attraverso l’Europa e che si è fatto promotore della nuova impresa 2024, sostenuta anche dalla Conferenza internazionale dello scoutismo: «Abbiamo voluto celebrare l’anniversario – spiega Gussoni – ma non avevamo intenzione di fare una rievocazione storica. Volevamo calare nell’attualità lo stile che aveva caratterizzato la “Freccia Rossa”. Ci siamo chiesti: nel 2024, su quale problema porterebbero l’attenzione don Ghetti e i suoi? Quello dei minori stranieri non accompagnati ci è sembrato un giusto parallelo con i mutilatini: il focus è rimasto sui giovani, sui più fragili e su un problema nascosto, di cui si parla poco perché la società preferisce voltare la faccia». Per questo all’impresa hanno partecipato ragazzi da Libano, Senegal, Burkina Faso, Chad e Costa d’Avorio, «Paesi dai quali provengono tanti minori soli», ha ricordato Gussoni.
Tra le tappe più significative della spedizione Bruxelles e l’Aja, luoghi simbolo per un gruppo che, proprio come quello guidato da don Ghetti, ha voluto che la fratellanza tra i popoli europei fosse un altro dei punti focali del messaggio testimoniato dalla traversata. «Nel ’49 l’Unione Europea non c’era ancora – fa notare Gussoni – era appena nato il Consiglio d’Europa, che infatti fu una delle loro tappe. Per noi invece è stato importante passare da Strasburgo». Nella “capitale dell’Unione” i due temi dell’impresa, migranti ed Europa, si sono infatti stretti la mano: alcuni scout italiani che oggi lavorano per la Commissione Europea e corrispettivi belgi hanno accolto la spedizione per raccoglierne il messaggio e condividere le esperienze che l’associazione belga «Les Scouts» ha messo in campo per l’inclusione degli stranieri all’interno delle proprie attività.
Lo stesso è avvenuto in un’altra tappa significativa, la miniera de La Marcinelle, in Belgio, dove l’8 agosto del 1956 morirono 262 minatori dei quali 136 erano immigrati italiani: «L’Unione Europea – ricorda Gussoni – nasce dalla Ceca, la Comunità europea del Carbone e dell’acciaio. Carbone che si estraeva anche a La Marcinelle, con il lavoro di tanti emigrati, tra cui molti italiani. Oggi parliamo dei migranti da una certa prospettiva, ma la generazione se non dei nostri padri sicuramente dei nostri nonni era una generazione di migranti, che andava a lavorare in miniere come quella teatro del tragico incidente».
Non dobbiamo tuttavia dimenticare che quella verso Stevanger è stata anzitutto una “route” scout e come in tutte le route che si rispettino la strada è stata protagonista. Percorrere fino a 300 chilometri al giorno in Vespa – su strade secondarie, sotto il sole o con la pioggia, dal caldo mediterraneo della partenza al freddo degli ultimi giorni in Norvegia – non deve essere stato uno scherzo: «Avevamo un furgone che ci seguiva proprio per risolvere i problemi che un viaggio del genere inevitabilmente comporta – racconta Gussoni -. Per fortuna non ci sono stati troppi intoppi, a parte qualche scivolata, senza conseguenze sulle persone, con solo lievi danni alle Vespe coinvolte». Mezzi che, al contrario della spedizione del 1949, non erano stati forniti per sponsor, ma noleggiati grazie alle proverbiali raccolte fondi che nessuno meglio degli scout è in grado di organizzare. Alla fine solo una moto, guarda caso la numero 17, ha dovuto dare forfait e a Stevanger di Vespe ne sono arrivate 19 su 20. Salutate, come nel 1949, da due ali festanti di scout in attesa.