«Uno strumento di dialogo per rilanciare una presenza di autorevolezza nell’esercizio della cura», specie di fronte alla complessità di oggi che spesso porta, anche i medici, alla solitudine. Appunto a questo tema, “Solitudine del medico, solitudine del malato”, è stato dedicato il Convegno pensato e realizzato dall’Associazione dei Medici Cattolici Italiani-Sezione di Milano con l’appoggio dell’Ordine provinciale dei Medici.
In una Sala Napoleonica, nello storico Palazzo Greppi, che non riesce a contenere i moltissimi partecipanti, quello che si compone non è solo, però, un cahier de doléances, ma la possibilità di aprire uno sguardo positivo con cui interpretare e trovare soluzioni al trend in corso. Così come, peraltro, indica la lettera dell’Arcivescovo – che prende la parola all’inizio della mattinata – dal titolo “Stimato e caro dottore…”
«Come medici cattolici possiamo annunciare che costruiremo un seminario di studio in cui dare voce ai rappresentanti di ampie categorie mediche, anche amministrative, per comprendere il problema», spiega in apertura Alberto Cozzi, presidente dell’AMCI-Milano. «La problematicità molto grave della solitudine sta dilagando. Nel 2018 si è evidenziato che oltre il 50% dei medici americani soffre di bornout e una recente ricerca dice che il tasso di suicidi, nella categoria, è di 3-5 volte superiore a quello registrato presso la popolazione in generale. Occorre superare la conflittualità, facendo emergere una dimensione della solitudine come modo per prendersi cura di se stessi. Vogliamo invertite il piano inclinato del lamento, diffondendo una vena di speranza per una buona solitudine che ci permetta di realizzare la figura del medico, tra competenze tecniche e prossimità e aprendoci al trascendente e alla compagnia».
Parole condivise da Franco Balzaretti, vicepresidente dell’Associazione – «la lettera è bellissima e credo che vada diffusa anche tra i colleghi non cattolici» – e da Roberto Carlo Rossi, presidente dell’Ordine dei Medici di Milano, che nota «il consenso istituzionale e diffuso» di fronte allo scritto, osservando: «La vicinanza che esprime è cosa poco comune e le espressioni dell’Arcivescovo ci fanno intendere come abbia compreso perfettamente la situazione in cui i medici si trovano. Basti pensare che, oggi, si sta svolgendo un altro convegno in Sala Alessi di Palazzo Marino, che tratta della violenza verso gli operatori sanitari. Un fenomeno di vasta portata totalmente nuovo»
Elio Franzini, rettore dell’Università degli Studi – Palazzo Greppi è una delle sedi della “Statale” – aggiunge: «La solitudine è un tema estremamente interessante nella convinzione che sia un problema di grande complessità etica a cui la filosofia, talvolta, fatica a dare risposta. La solitudine del paziente viene spesso messa in rilievo, ma quella del medico, offre spunti di novità. Il medico è solo nella decisione, ma anche interiormente, perché la medicina sta cambiando moltissimo nelle sue strutture e metodologie. Bisogna sapersi adattare e questo può creare, certamente, sentimenti di solitudine».
L’intervento dell’Arcivescovo
Di «grande ammirazione e gratitudine» parla il vescovo Mario che, nella sua relazione, delinea la situazione della solitudine tra luci e ombre.
«Ci sono alcuni momenti in cui la solitudine è invocata, desiderata e addirittura doverosa per la professionalità e umanità dei medici. Come l’oasi sospirata nel cammino logorante del deserto – in luoghi per voi di tensione e preoccupazione-, così la solitudine prende la qualità desiderabile del ritiro, del raccoglimento, di “un tempo per sé” per rivedere i volti dei malati e per aggiornarsi. Questa è una di quelle forme del prendersi cura di sé che è il modo per iniziare ad amare il mondo. Eppure, la solitudine invocata non è priva di ambiguità: può essere un ripiegamento, un’evasione, una condizione autocentrata per guadagnarsi applauso e riconoscimento».
Il pensiero torna alla solitudine «che assume i tratti della condizione mortificante, frustrante, inquietante di chi si sente emarginato ed escluso».
«Solitudine dell’abbandono, della incomunicabilità, della emarginazione», come la definisce il Vescovo, che si declina in diverse situazioni, anzitutto di fronte ai pazienti, «quando il malato assume l’atteggiamento del cliente che ha sempre ragione, invece che del paziente; quando il medico è messo, in tale modo, all’angolo, assediato da pretese e presunzioni, persino minacciato da una aggressività violenta o da un risentimento vendicativo, magari dai familiari».
Ma vi è un rimedio per questo dottore fornitore di servizi e, quindi, solo?
Sì, se si trasforma «il malato da cliente a paziente, facendone un alleato, perché la malattia è nemica di tutti. Ma questa alleanza deve trovare un modo per dirsi, esprimersi. Non è una via facile né rapida, che si possa liquidare con uno slogan, richiede pazienza tenace e competenza comprovata».
Poi, un secondo caso: la solitudine medica nella lotta contro la malattia. «Il nemico da vincere si presenta, a volte, con tratti imprevedibili e sconcertanti. Il medico percepisce di essere l’unico appiglio – al quale il malato e la sua famiglia si aggrappano come ultima speranza -, e non riesce a sostenerne il peso. Tale solitudine può portare il professionista a cercare sollievi palliativi nella parcellizzazione degli interventi, nella delega alla tecnologia più sofisticata, ma, forse, è più saggio maturare come persone che prendono atto della fragilità strutturale dell’uomo».
L’esercizio raccomandato e da coltivare è quello dell’umiltà. «Medico e malato non stanno tra loro come il salvatore e chi chiede salvezza, ma sono dalla stessa parte, hanno lo stesso nemico e combattono insieme la battaglia che permette di vivere».
Questione che diventa radicale, quando la decisione da prendere è sulla vita, sulla dignità e la proporzionalità delle cure. Una solitudine etica rispetto alla quale, il «dibattito rischia di essere troppo animato e, quindi, parlarne può sembrare un mettere sale sulle ferite piuttosto che un contributo alla serenità». Ma la dottrina cattolica «che mette in discussione sia l’accanimento terapeutico sia l’eutanasia è promettente e permette di trovare un equilibrio. La strada è il dovere di giungere a una certezza morale che diventa più lieve, non tanto per il riferimento a protocolli, quanto per cammini condivisi entro équipes di collaboratori, per un’abitudine alla riflessione, per un incremento di sapienza e competenza che il tempo può propiziare».
E, ancora, la solitudine nella vita di famiglia e sociale. «Per vincere questa solitudine, l’inaridirsi del cuore e il prosciugarsi dei sentimenti, è consigliabile distinguere tra qualità e quantità del tempo, chiedendo aiuto, consiglio, collaborazione alla famiglia e alla comunità, per mettere ordine tra le priorità e adeguare la gerarchia dei valori, anche rispetto alle diverse età della vita. L’espressione “fare il medico è una vocazione” chiede di essere criticamente valutata e chiarita nei suoi significati precisi, perché anche costruire una famiglia è una vocazione e non si possono avere troppe vocazioni contemporaneamente».
Infine, la solitudine del medico di fronte all’istituzione, con cui i rapporti, in una società complessa, possono essere complicati fino a diventare conflittuali. «Il singolo può avvertire la solitudine di non essere riconosciuto nei suoi diritti, di non essere incoraggiato a mettere a frutto le sue capacità, di non essere difeso da ingiuste accuse, di non essere protetto dalle aggressioni ingiustificate che subisce. I processi complessi, le procedure esasperanti, mortificano le aspettative legittime dei medici. L’ovvio sostegno della solidarietà tra colleghi e collaboratori e della associazione nelle organizzazioni sindacali può sempre correre il rischio di essere un principio retorico se non è frutto di una condivisione di rapporti costruttivi». Come adire, perseguire il benessere condiviso e complessivo aiuta ogni parte in causa ed è la via da percorrere.