Le parole grigie che raccontano di una civiltà rassegnata, che diventano armi per ferire e quelle insignificanti.
È un viaggio nelle parole, a tratti affascinante, quello che l’Arcivescovo e lo scrittore e biblista Erri De Luca hanno condotto con i tanti che, nel contesto dell’evento Fa’ la cosa giusta, hanno preso parte al dialogo sulla corruzione delle parole, essendo entrambi «maestri di parole e della Parola», come ha spiegato, in apertura, la moderatrice dell’incontro Miriam Giovanzana, direttrice editoriale di Terre di Mezzo.
La realtà organizzatrice, dal 2004, della “Fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili” che, nell’arco di 3 giorni sta proponendo – quest’anno dal 24 al 26 marzo all’Allianz-Mico – 350 incontri con 700 relatori, dibattiti, spettacoli, degustazioni e approfondimenti sulla sostenibilità, su un turismo rispettoso dell’ambiente, sulla rigenerazione dei territori, attraverso la presenza di 450 espositori provenienti da tutto il Paese.
E così, prima di entrare nel semplice spazio della Piazza viaggio slow, dove si svolge il dialogo come ad un crocevia, lo stesso vescovo Delpini visita gli stand fermandosi dove si evidenzia la necessità di riflettere sulle comunità energetiche rinnovabili o di fronte a una semplice installazione realizzata con i legni dei barconi dei migranti, o ancora, nel padiglione del Cuamm, Medici con l’Africa.
Le parole false
Poi, interrotto da molti applausi, si avvia il dialogo con una frase di Charles Baudelaire, citata da De Luca: «Quello che la lingua si abitua a dire, il cuore si abitua a credere».
«Sappiamo tutti quanto ciò sia vero, ma questo – scandisce lo scrittore – coinvolge la responsabilità della formazione delle idee e dell’opinione pubblica. Quando un potere si mette a falsificare la realtà, quella realtà diventa vera e procura reazioni».
Non mancano gli esempi, come il termine invasione, utilizzato spesso per definire le migrazioni. «Una parola – spiega De Luca – che ha un significato preciso e che non possiamo utilizzare per chi arriva senza armi, in maggioranza donne e bambini, senza volere annettersi o conquistare un territorio. Oppure le “ondate” che immediatamente suggeriscono di innalzare sbarramenti. Bisogna chiamare il fenomeno con il suo nome: flussi migratori».
Il ricordo di De Luca va a quando trascorse qualche settimana su una nave di Medici senza frontiere che incrociava a largo delle acque libiche e che salvò 800 persone. «Lì ho visto la disperazione, il non avere nessuna speranza. La forza motrice è solo la disperazione e lo ha scritto Virgilio quando mette in bocca al padre di Enea che la sola salvezza per i vinti è non sperare in alcuna salvezza».
Che fare, dunque, di fronte all’uso di un vocabolario tendenzioso che diviene falso? «Possiamo – suggerisce De Luca – prendere la parola in nome della lingua italiana, pronunciando parole esatte, avendo il compito supplementare di proteggerle dalle falsità, con un’ostinazione alla quale non possiamo sottrarci». Un impegno, questo, che riguarda tutti, non credenti, come si definisce lo scrittore, e cristiani.
Le parole che feriscono
«L’esperienza non solo dei cristiani», osserva, infatti, il vescovo Delpini, «è che non sono le parole che corrompono, ma è l’uso che se fa. Io combatto la mia battaglia contro le parole grigie che sono quelle che parlano per diffondere, appunto, il grigiore, quelle del lamento che fanno l’elenco di ciò che rende tristi e fanno perdere la percezione dei colori del mondo. Le parole grigie sono quelle che incrementano il senso di una civiltà che vuole spegnersi, di una città che resta imprigionata nell’assenza della speranza».
E, ancora, le parole per ferire. «Nella Scrittura ci sono polemiche accanite contro le parole-armi usate per colpire», continua l’Arcivescovo. «Un colpo di frusta produce lividure, ma un colpo di lingua rompe le ossa, si legge nella Bibbia. Sono le parole che umiliano un debole, che levano credibilità». Infine, le parole tiepide e insignificanti che, talvolta, usiamo trasformando il fuoco delle parole sante. «Per questo ammiro i poeti e quelli che fanno della parola un motivo di stupore, come una lucciola nella notte», confessa l’Arcivescovo.
L’amore
«Io sono appartenuto a una generazione che ha utilizzato le parole anche per agitare, ho usato collettivamente delle parole in cui credevo e che non rinnego», ribatte De Luca che fa riferimento alla manna che «doveva sfamare una popolazione di un milione e mezzo di persone nel deserto, che marciva se non veniva consumata per intero, che andava consumata in giornata perché non diventasse merce di scambio e finisse solo a chi ne aveva veramente bisogno. I maestri del Talmud ci dicono che aveva la qualità di prendere il gusto che uno desiderava».
Così è l’amore. «Il più potente sentimento che abbiamo in corpo è l’amore che dobbiamo consumare fino in fondo sennò marcisce e che, se consumato, rinasce incrementato. Al contrario dell’economia, è la legge del gratis, ma è necessario che questo giacimento amoroso che è in noi, venga richiesto da qualcuno, perché sarai capace di amare te stesso solo nella misura in cui amerai il prossimo. Non a caso nel Levitico e nel Vangelo è scritto, Amerai il prossimo tuo come te stesso e non il contrario».
Il cammino della storia
Richiamando un racconto dal volume Lo specchio nello specchio di Michael Ende, con l’immagine di una carovana impegnata in un viaggio infinito, monsignor Delpini riflette a sua volta. «Perché il mondo si frantuma, perché costruisce e si divide in gruppi che si disprezzano? Eppure c’è una parola che unisce tutte le cose, ma che è andata perduta. Io interpreto la storia umana come un lungo camminare, nei secoli, guidati dalla parola che tiene unite tutte le cose, perché siamo in cerca di un senso come i mendicanti».
Alla domanda di Giovanna su quale possa essere questa parola, De Luca risponde. «La parola è il cammino, come quando è detto che la divinità stende una nuvola per coprire il suo popolo nel deserto, ma il Salmo esattamente dice un tappeto, su cui si può camminare con libertà. La nuvola non serve per proteggere, ma per indicare il cammino nel deserto».
«La parola – aggiunge Delpini – il verbo, in greco, è il logos. All’inizio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio, come si legge nel Prologo del Vangelo di Giovanni. La parola che tiene unite tutte le cose non è una filosofia, una dottrina, ma un modo di essere uomini, carne, figli. Questa è la risposta che trovo al bisogno di un significato per il tutto. Gesù si definisce, infatti, non come un risultato, ma come la via, intendendo il percorso umano come una sequela più che una conquista. Il senso del tutto è essere una possibilità di dono e di amore».
«Credo che non siamo destinati – conclude Delpini – a finire nel nulla, per cui l’esito è la rassegnazione. La parola ci suggerisce che siamo in cammino, con il nome di ciascuno scritto nel libro della vita e non solo su una lapide del cimitero. C’è una terra promessa verso cui andare anche se siamo in questo deserto dove la direzione non è evidente: questa si chiama speranza».
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