“Cattive”, importune, o quantomeno ai margini del contesto sociale. Se i Rom sono ancora identificati spesso con i campi nomadi ai contorni delle nostre città, per le donne Rom è forse ancora più facile essere identificate con un’etichetta. Quella di chi chiede insistentemente l’elemosina, o anche quello di borseggiatrici. Naturalmente il mondo Rom è molto più complesso, così come lo è l’identità delle donne di questo gruppo etnico. E, d’altra parte, anche con la parte più problematica di questa realtà è necessario fare i conti. Non fosse altro perché, seppur minoritari, sono proprio questi casi negativi quelli su cui, poi, viene costruito l’immaginario prevalente.
Il tema delle donne Rom detenute è stato affrontato nel convegno tenuto oggi a Milano, presso la sede di Caritas Ambrosiana, che da diversi anni promuove la conoscenza della cultura Rom e dal 2004, con una propria équipe di strada, mantiene i contatti con circa un centinaio di famiglie, favorendone un percorso di dialogo e di integrazione.
Proprio partire dalla fine, ovvero dall’esito del carcere, può aiutare d’altra parte ad andare più in profondità rispetto a una conoscenza superficiale o stereotipata delle storie di queste donne. Perché, come ha sottolineato Anna Cavallari, responsabile dell’équipe di strada di Caritas, per un gruppo etnico che storicamente è sempre stato minoritario è più facile raccontarsi secondo una rappresentazione standardizzata e che allo stesso tempo preserva l’identità del gruppo. Mentre gli stessi Rom sono meno portati a raccontarsi in una forma che infranga questa rappresentazione. Se all’uomo – ha ricordato Cavallari – nella società Rom è delegato un ruolo più pubblico, la donna si definisce per il suo ruolo di moglie e di madre. E la stessa donna racconta, con le sue gonne lunghe e coprenti, l’immagine di una purezza che possa così rappresentare tutto il gruppo etnico. Ma proprio in questo ruolo le donne vivono una realtà drammatica, che spesso le vede spose appena adolescenti, con un consenso che è solo formale.
Per questo – ha raccontato la professoressa Claudia Pecorella, docente di Diritto penale all’università Bicocca e volontaria dello sportello di orientamento legale al carcere di Bollate -, proprio l’arresto e la detenzione possono trasformarsi in un’opportunità di emancipazione, o anche solo una sorta di pausa rispetto alla vita e al ruolo in cui sono costrette. «C’è chi racconta di essersi fatta arrestare, perché, altrimenti, sarebbe stata costretta ogni giorno a uscire dal campo per raccogliere i soldi; oppure chi spiega che finalmente, in carcere, avrebbe potuto trascorrere qualche giorno di tranquillità con la propria figlia». Allo stesso tempo, chiarisce Pecorella, le donne Rom non sono abituate ad accudire e a educare i propri figli, e dunque per gli operatori – in particolare all’Icam, l’istituto di detenzione attenuata per donne con minori – c’è la fatica di convincere le donne a intraprendere questo percorso. «Ma, una volta che vengono agganciate, loro sono le più disponibili a collaborare, garantisce la docente. E imparare a leggere e scrivere, così come l’apprendimento di un lavoro, diventa una conquista fondamentale, da trasmettere ai propri figli».
Ci sono naturalmente i risvolti più strettamente penali con cui le donne devono fare i conti. Tra le detenute a Bollate (l’ultimo report dell’associazione Antigone ne conta 140 su una popolazione carceraria di oltre 1300 persone), più della metà sono di origine Rom, anche se naturalmente l’appartenenza al gruppo etnico può non essere evidente in modo immediato, per esempio perché molte sono di nazionalità italiana. E, nonostante la condanna per furto, spesso la pena può arrivare anche a dieci anni, al pari di reati più gravi. Perché se, come prevede la legge, la pena è sospesa per chi è incinta o ha un bambino più piccolo di un anno, le condanne non scontate, anche se di pochi mesi, si sommano. E dunque il lungo periodo di detenzione rende difficile restare vicino ai propri figli o iniziare una nuova vita anche per quelle donne che hanno già iniziato un percorso di autonomia.
Una realtà complessa, dunque, che il professor Sergio Tramma, docente di Pedagogia sociale sempre all’università Bicocca, ha invitato a non semplificare. Considerando come, se è certamente necessario costruire una contronarrazione sui Rom rispetto a quella indignata e colpevolizzante a cui assistiamo facilmente in televisione, sia altrettanto indispensabile tenere conto della sensibilità di tutte le parti in causa. E dunque, nel caso dei borseggi, anche di quella delle vittime. Se la cultura cristiana – ha rilevato Tramma – è forse l’unica ancora in grado di esprimere una visione del mondo unitaria e coerente, oggi una narrazione più positiva, che si contrapponga all’immaginario comune, «è debole», e ha sottolineato come l’immaginario negativo si “rompa” con le occasioni di incontro nella normalità.
Un percorso da costruire gradualmente, ma comunque da raccontare. «Perché altrimenti – ha concluso Cavallari – non si renderebbe giustizia alle tante donne e famiglie Rom che alla mattina di alzano, portano i figli a scuola e vanno a lavorare, proprio come noi».