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L'idea

Dagli abiti rivenduti progetti di solidarietà

Due negozi aperti a Milano, uno a Varese e un altro in cantiere a Lecco. Si espande «Share», che crea nuovi posti di lavoro e con il ricavato finanzia le necessità del territorio in campo sociale. Il responsabile Carmine Guanci spiega questa originale iniziativa

di Cristina CONTI

15 Maggio 2016

Arredi per due appartamenti di housing sociale, sostegno agli adolescenti con disagio psichico, interventi a favore dei carcerati. Sono tante le iniziative finanziate grazie a «Share» (rete Second hand reuse), il progetto di moda sostenibile che devolve a favore del territorio il ricavato dalla vendita di indumenti usati della cooperativa «Vesti solidale» del Consorzio Farsi Prossimo, realizzato grazie al contributo di Fondazione Cariplo e Fondazione Peppino Vismara, e sostenuto da UniCredit Foundation, attraverso il bando «UniCredit Carta E 2014».

Capi di abbigliamento unici, di buona qualità, di seconda mano, a un prezzo accessibile. In un ambiente accogliente e dalla forte identità. Arredamenti minimal ed eco-chic, con abbondante uso di materiali di recupero in coerenza con la filosofia del progetto. Queste le caratteristiche dei negozi, che attraggono un gran numero di acquirenti. Oggi sono tre i negozi aperti, due a Milano (in viale Padova 36 e in viale Umbria 52), uno a Varese (in via Bernardino Luini 3). Altri sono in cantiere, di cui uno a Lecco e uno a Napoli.

«Gli obiettivi che ci proponiamo con questo progetto sono innanzitutto quello di creare nuovi posti di lavoro per giovani e persone in difficoltà», spiega Carmine Guanci, responsabile dell’iniziativa. In ogni negozio, infatti, ci sono tre persone assunte con regolare contratto. Ma ci sono anche altre finalità, come quella di promuovere una «economia circolare». Grazie a questi negozi, infatti, vengono messi in riuso abiti che sono stati dati via da altre persone. «I capi vengono acquistati da aziende specializzate nell’igienizzazione e nella rimessa a nuovo di vestiti usati. Si tratta della “crema” della raccolta», aggiunge Guanci.

E ultimo, ma non meno importante, la solidarietà. La vendita dei vestiti finanzia progetti sul territorio per aiutare chi ha più bisogno. Secondo le stime, la Second hand economy, infatti, vale 19 miliardi, l’1% del Pil e coinvolge il 50% della popolazione sotto i 45 anni. Non solo acquistare articoli di seconda mano non è più un tabù, ma diventa anche una scelta apprezzata sempre di più, soprattutto dai giovani. E le previsioni, in controtendenza con il mercato tradizionale, danno ancora margini di crescita. Non un ripiego, dunque, ma un vero e proprio stile di vita.

«Share» lo dimostra: con un fatturato in crescita del 20% in un anno e i proventi sempre reinvestiti per aiutare il territorio. Dall’acquisto degli arredi di un appartamento di autonomia mamma-bambino, alle cure odontoiatriche per i bambini di famiglie in difficoltà economiche, fino a un progetto nel carcere di Opera e a un dispositivo multimediale sviluppato dagli utenti del Centro diurno di neuropsichiatria del Policlinico di Milano. «Un approccio nuovo all’acquisto che genera senso di comunità», sottolinea Guanci. Gli abiti provengono da diverse città italiane ed europee, in particolare dalle piazze di Parigi, Berlino e Amsterdam, secondo il motto di «alta qualità in perfette condizioni». E, cosa che non guasta, il listino è accessibile a tutte le tasche.

«Share», inoltre, è anche una community: grazie ai social network (un sito dedicato, una pagina Facebook) i clienti possono verificare come ogni singolo acquisto stia contribuendo ad aiutare i beneficiari del progetto. Lo spazio commerciale è poi il fulcro di attività culturali e di iniziative sociali. Laboratorio di corsi di sartoria e cucito, passerella su cui gli stilisti alternativi presentano le loro collezioni.

Un’attività, insomma, in grado di conciliare l’aiuto concreto alle persone bisognose e la partecipazione attiva alle necessità dei singoli territori con la moda e le tendenze della società di oggi.