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Testimonianza

COV-19: i medici e il buon esempio

Nelle parole di Alberto Cozzi, presidente dell'Associazione Medici Cattolici di Milano, i dubbi e le certezze di un medico di famiglia che, pur non essendo in "prima linea", ha quotidianamente a che fare con l'emergenza dell'epidemia, tra il dovere dell'assistenza, la vicinanza umana e la sensibilità cristiana.

di Alberto COZZIPresidente Associazione Medici Cattolici di Milano

26 Marzo 2020
Alberto Cozzi

Ogni giorno mi corico e mi risveglio con questa domanda: avrò fatto la mia parte fino in fondo? Rispetto ai colleghi in trincea negli ospedali, stravolti dal lavoro incessante ed esposti ad un rischio elevato, io che lavoro sul territorio sto presidiando con efficacia la situazione? A ben vedere la domanda sulla propria identità, in scienza e coscienza, è già dentro la professione medica, ma oggi viene acuita e provocata dalla pandemia che stiamo vivendo.

1700 assistiti col SSN + una quota variabile di privati, conoscenti e amici  seguiti attraverso l’attività specialistica e di ricovero in una Clinica privata. Quasi 2000 persone che mi stanno a cuore, che mi chiedono incessantemente lumi, consigli, rassicurazioni cliniche e al contempo umane. Due cellulari attivi H24, mail, visite domiciliari, videoconsulti: benedette le innovazioni tecnologiche, ben venga la telemedicina!

Il 98% della patologia dominante è simil-influenzale: una miriade di casi, protratti o nuovi, che maledettamente non guariscono, i sintomi delle complicanze in agguato e difficili da valutare con obiettività, la presunzione che quasi tutti siano positivi al virus, anche se il tampone non si può fare. Rari casi gravi in Ospedale (a mia conoscenza!), ma bastano per stare in angoscia. Le altre patologie ordinarie non sembrano preoccupare più, così come sono scomparse le troppe richieste/pretese di risolvere sintomi indefiniti o “ipocondriaci”. Il ritornello è per tutti l’isolamento preventivo, specie in ambito familiare (ma è dura nelle nostre piccole case, a volte semplici bilocali), pochi farmaci sintomatici e la registrazione dei cambiamenti clinici da comunicare prontamente. Tante rassicurazioni e consigli.  Basta per tranquillizzare la mia coscienza di fronte alla scienza che vacilla di fronte ad un nemico invisibile, subdolo e inedito?    

Mi prende l’imbarazzo e il pudore nei confronti di chi lavora in trincea. Ma poi mi dico: da sempre la gente ha fiducia in me riconoscendo una serietà, autenticità e umanità che cerco, anche maldestramente, di esprimere. Si attende da me che non vacilli, che offra “certezze” e speranza, che mantenga il mio posto (in fondo nelle guerre questo è il ruolo dei “soldati semplici”).

E allora mi rinfranco puntando tutto sulla responsabilità sanitaria e insieme sociale che mi compete, alzandone l’asticella, aggiornandomi e di volta in volta modificando le mie risposte in base alle novità, alle scoperte. Una visione globale che ha radicalmente mutato il mio modo di pensare ed agire in poche settimane. Mi sono dovuto adeguare anche con docilità alle direttive sanitarie e sociali, relegando critiche ed interpretazioni personali di fronte ad incongruenze ed omissioni plateali. Non è il momento delle polemiche a buon mercato, degli arroccamenti, della saccenza che noi medici spesso abbiamo predicato. Ora occorre dialogare e collaborare come un corpus unico ed unito tra tutte le forze mediche e riservare al dopo le proposte di un cambiamento ineludibile nell’organizzazione sanitaria.

E dunque una responsabilità mai sbandierata, ma vissuta come un peso e un dovere della professione. La docilità mai remissiva, ma intelligente, capace di sdegno e di fermezza nel farsi sentire.

Ma ancor più sento il dovere di esprimere un supplemento di vicinanza umana perché riesco a comprendere e condividere le fragilità dei miei pazienti così come io stesso le avverto (“dottore, ogni tanto mi pare che mi manchi il respiro, quando devo preoccuparmi?”). Una vicinanza non retorica, ma fatta di gesti concreti, di una maggiore disponibilità, ascolto, comprensione.

D’altronde constato e apprezzo ancor più in questi tempi la riconoscenza e l’affetto che i pazienti mi riservano preoccupati della mia salute, dei rischi che corro e del carico emotivo. Ancora una volta tocco con mano quanto sia fondamentale la relazione che abbiamo insieme costruito e dove la fiducia è pilastro e garanzia insostituibile. Dentro questa relazione so di giocarmi tutta la mia responsabilità, scienza e coscienza personali. Saremo capaci di ricordarcene anche dopo, reciprocamente?

E dentro questi sentimenti mi nasce uno spontaneo affidamento ad una dimensione trascendente che si coniuga con una scienza in perenne evoluzione, ma incapace di onnipotenza. Una visione dell’uomo a 360° che non si accontenta di “ricette semplici” per ogni malanno del corpo e dello spirito. Un’ affidamento docile e ragionevole, mai ingenuo o devozionale, che anche un non credente può cogliere ed accogliere. In questo vedo l’esemplarità della mia Chiesa ambrosiana e del nostro Arcivescovo Mario che ci suggerisce a piene mani e in modo creativo parole forti e piene di speranza in questo tempo quaresimale (i giorni della grande libertà di scegliere e fidarsi di Dio, superando le nostre incertezze, frustrazioni, angosce).

In queste ore buie sento di dover aprire gli occhi perché la paura e la mia inadeguatezza lascino spazio ad una vita che è più grande delle nostre piccole vite che ci soffocano, sempre preoccupati delle cose minime, guardinghi e infelici.