«Parliamo del carcere come se fosse una realtà compatta, omogenea, ma in realtà, dentro un penitenziario, proprio come avviene in una città, la popolazione è fatta di persone ed esperienze diversissime. Credo che solo una cosa valga per tutti: il desiderio di essere ascoltati e di ascoltare, di creare relazioni, per le quali, però, coloro che sono detenuti devono essere aiutati».
Don Francesco Palumbo, sacerdote ambrosiano, cappellano della Casa di reclusione di Opera da quasi 13 anni, racconta così, in estrema sintesi, quale sia la maggiore urgenza del penitenziario in cui svolge il suo ministero unitamente a un secondo cappellano, don Marco Manenti.
Quali sono i “numeri” di Opera?
Si oscilla tra i 1300 e i 1400 reclusi. È difficile avere un numero preciso, perché vi è un ricambio continuo della popolazione presente, nel senso che registriamo entrate e uscite costanti ogni giorno. Opera è un carcere maschile, che presenta circuiti diversi di detenzione, con livelli di sicurezza differenziati. E, come è noto, qui c’è anche chi – in questo momento tra le 80 e le 100 unità – si trova ristretto in regime di 41 bis. Questa ultima forma di detenzione è un mondo a parte, una sorta di cittadella interna.
Un grave fatto di cronaca recentissimo ha scosso l’intera comunità carceraria. Qual è il clima che si respira oggi?
Vorrei precisare che non è un fatto, per quanto gravissimo come un omicidio (un detenuto è stato ucciso dal suo compagno di cella per motivi banali, forse relativi alla condivisione degli spazi, ndr), che cambia il clima che si respira da mesi, anzi da anni. Semmai, la cronaca porta alla ribalta la realtà carceraria, dipingendola a tinte forti, ma non muta l’assetto complessivo di un penitenziario e non aiuta a riflettere in profondità. Credo che invece la città – non solo Milano, ma intesa come comunità – dovrebbe considerare il carcere una sua parte integrante, qualcuno dice addirittura un quartiere come altri. L’attuale alta mobilità, molto più frequente rispetto ad altri anni perché ormai qui non si scontano solo pene definitive di lunga durata, non aiuta a conoscersi, ad avere un minimo di relazione. Soprattutto, costruire progetti che mettano al centro le persone diventa molto più difficile.
Questo aumenta il rischio che le carceri si chiudano su se stesse, come secondo molti sta accadendo?
Quella del chiudersi è una tentazione molto forte che, naturalmente, comporta forme di controllo maggiore. È un vento, diciamo così, che ogni tanto soffia e ora mi sembra che stia ritornando.
C’è collaborazione tra chi rappresenta lo Stato all’interno del penitenziario, voi cappellani, gli agenti, le figure di supporto?
A Opera il clima di collaborazione c’è – e questo è un fatto certo – sia con la polizia penitenziaria, sia con l’intera area educativa. Lo rilevo anche confrontandomi con altre realtà, ad esempio nei convegni nazionali con tutti gli operatori carcerari, come quello della settimana scorsa, o negli incontri regionali tra cappellani e persone consacrate che si svolgono mensilmente. È chiaro che questa collaborazione implica due aspetti. Primo, la consapevolezza che ognuno di noi ha un ruolo, un lavoro, obiettivi diversi. Dall’altra parte, però, il dialogo in questi anni ci ha fatto scoprire che ciascuno può svolgere meglio il suo compito facendo rete. La questione decisiva che penso di dover segnalare è che le persone detenute hanno bisogno di stimoli che possono venire soltanto dall’esterno. C’è tutta una frangia di persone recluse, che non sono una piccola percentuale del totale, che avrebbero bisogno di motivazioni per essere provocati a vedere che la vita può conoscere prospettive differenti.
Per esempio?
Molti di loro, per tante ragioni, non hanno esperienze belle di vita vissuta, mentre occorre dimostrare che esistono. Già lo si fa con qualche mostra organizzata all’interno, con i quadri realizzati dai reclusi, la costruzione di violini e altro. L’aspetto artistico è interessante e importante, ma penso che la questione fondamentale sia la relazione personale, perché i detenuti hanno bisogno di essere ascoltati e di entrare in racconti di vita diversi da quelli che conoscono. Trascorro molto tempo nei colloqui e mi accorgo che a volte, soprattutto quelli che sono più ristretti, chiedono di raccontare anche piccoli particolari di vita quotidiana che a noi possono sembrare insignificanti. Ci sono scenari esistenziali, di relazioni familiari, di modi di stare insieme, di comunità, di impegno gratuito, di volontariato, che effettivamente li colpiscono molto.
Sarebbe necessaria, insomma, una continuità più coerente delle proposte, al di là di pur lodevoli iniziative…
A volte mi pare che alcune siano proposte che definirei “palliative”, parziali, senza i requisiti di un’organicità che aprirebbe a una relazione più ampia. In questo senso, si può inserire anche il significato della presenza dei cappellani. A Opera siamo in due, ma l’aspetto decisivo, per quanto mi riguarda e su cui si gioca, secondo me, il futuro stesso della Chiesa in carcere, è lavorare in équipe. Qui, oltre a noi, svolgono servizio due frati, due suore e 5-6 laici che varcano i cancelli almeno due volte alla settimana. Credo che un gruppo di questo genere rappresenti bene il domani anche perché i laici diventano sempre più fondamentali.
Voi ascoltate molto, ma siete, a vostra volta e non solo dai detenuti, ascoltati come cappellani?
Dai reclusi riceviamo sempre riscontri incoraggianti e positivi e questo mi stupisce sempre. Tuttavia, devo dire che in questi anni abbiamo costruito relazioni buone con l’area educativa, con il direttore e la polizia penitenziaria. Da questo punto di vista il clima è davvero felice, naturalmente, facendo ognuno la sua parte ed esercitando il proprio ruolo e responsabilità.