Ha vinto anche il Covid 19 che l’aveva aggredita nella scorsa primavera, ennesima dimostrazione di una tempra eccezionale. Ma più del virus è stato l’isolamento imposto dal lockdown a fiaccare la voglia di vivere che le aveva permesso di superare prove terribili. Sabato 26 settembre se n’è andata Ines Figini, 98 anni, protagonista di una tra le più singolari e drammatiche vicende di deportazione nei lager della seconda guerra mondiale. È morta a Como, sua città natale, nella residenza per anziani in cui viveva da qualche anno: prima ancora di perdere l’autosufficienza, era stata lei, autonomamente e lucidamente, a scegliere quella soluzione, da padrona della sua vita quale è sempre stata. I funerali saranno celebrati martedì 29 settembre, alle 11, nella chiesa del Crocefisso.
Nel periodo bellico Ines lavorava alla Stamperia Ticosa, storico fulcro produttivo e occupazionale del Comasco. Non era ebrea, non era partigiana e neppure esplicitamente antifascista. Nel marzo del 1944 solidarizzò con alcuni compagni di lavoro, accusati di avere organizzato uno sciopero, e finì per condividere la loro sorte. Fu deportata in tre luoghi di detenzione tra i più infami: Mauthausen, Auschwitz-Birkenau e Ravensbrück. Sopravvisse all’orrore e anche alle malattie che la perseguitarono per molti mesi dopo la liberazione. Tornò a casa, riprese a lavorare e mantenne intatte le passioni, la curiosità e la voglia di scoprire, conoscere e imparare che aveva prima, conservando fin oltre i 90 anni il dinamismo e l’intraprendenza che l’animavano. L’esperienza del lager l’aveva segnata, come quel numero tatuato sull’avambraccio: 76150. Ma non condizionò la sua esistenza.
Come la maggior parte dei reduci, per molti anni Ines non parlò della sua vicenda. Poi iniziò a girare per le scuole di Lombardia a rendere la sua testimonianza, come obbedendo a una missione: fare in modo che nulla venisse dimenticato, rimosso o negato. Ma nelle sue parole non risuonavano mai odio, rancore, rivalsa. Parlava con una serenità dei toni in stridente contrasto con l’orrore dei contenuti. Un atto di responsabilità nei confronti delle giovani generazioni, perché conoscessero il significato concreto di parole come «perdono» e «riconciliazione». Nel 2004 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi la nominò Commendatore.
Ho avuto la fortuna di conoscere Ines e di ascoltare la sua “lezione” di pace. Con Giovanna Caldara ho raccolto la sua testimonianza in un libro, Tanto tu torni sempre. L’abbiamo presentato in circa un centinaio di eventi, dibattiti, conferenze, inaugurazioni di mostre… Siamo stati ospiti di enti pubblici, biblioteche, musei, librerie, circoli e associazioni. E soprattutto di tante scuole.
Nella maggior parte dei casi Ines era con noi. Sempre con il sorriso sulle labbra, fiera di parlare della sua storia, desiderosa di portarla a conoscenza di nuovi pubblici. Soprattutto nelle scuole, dove dava il meglio di sé. Non tanto nello svolgimento della sua testimonianza – sempre ugualmente toccante e coinvolgente -, quanto nel successivo botta-e-risposta con gli studenti. Un dialogo vivo, intenso, vibrante. I ragazzi la capivano e la apprezzavano, formando una lunga coda al termine di ogni incontro per stringerle la mano, abbracciarla, chiederle una dedica, fare un selfie insieme, oppure per vedere il tatuaggio del lager.
Quando non fu più in grado di accompagnarci, la consolò la consapevolezza di avere lasciato un segno nell’animo di chiunque avesse ascoltato il suo racconto. La sua storia rimane una testimonianza di straordinario significato. Contribuisce a tenere sollevati i veli di ignoranza, indifferenza, mistificazione e menzogna con cui – anche oggi – si cerca di coprire la pagina probabilmente più atroce del libro dell’umanità. Ma soprattutto dimostra che a ciascuno di noi può capitare di trovarsi improvvisamente davanti a un bivio e di dover decidere che strada prendere: scegliere tra la convenienza e la giustizia, il vantaggio e il dovere, il tornaconto personale e il bene collettivo. Quando Ines si trovò a quel bivio, scelse la strada che il suo cuore, non il suo cervello, le suggeriva. Saremmo capaci di fare altrettanto?