Meno giornali, meno liberi (#menogiornalimenoliberi). È partita nei giorni scorsi una poderosa campagna istituzionale a livello nazionale. Ad essa è associata una petizione da firmare online (www.menogiornalimenoliberi.it). Numerose altre attività sono state avviate da nove sigle dell’editoria, Fisc compresa (la Federazione cui fanno capo 190 settimanali cattolici). Tutta questa mobilitazione narra con estrema chiarezza il pericolo incombente: sono davvero numerosi i giornali a rischio chiusura, settimanali diocesani compresi.
Da lunghissimo tempo mettiamo in guardia dai pericoli di una concentrazione dell’informazione che in Italia riguarda ogni mezzo. I grandi network avranno vita ancor più facile. È in gioco quella polifonia di voci che da oltre un secolo caratterizza l’informazione locale. Stanno per chiudere bottega decine e decine di pubblicazioni, nel silenzio più totale.
Già diverse testate hanno abbassato la saracinesca. Poco alla volta periodici e quotidiani di lunga tradizione stanno dicendo basta, in una lenta e continua agonia che fa solo il gioco di chi occupa già tanto spazio con voce assai robusta. È il declino dell’importanza della cosiddetta provincia italiana, a vantaggio di un mondo dell’informazione tutto schiacciato sui grandi media, sugli slogan, su una comunicazione di superficie che non crea legami.
È in pericolo un pezzo, neppure tanto piccolo, del nostro Paese. Non si tratta solamente di una perdita di ricchezza causata dal venir meno di migliaia di posti di lavoro. Qui si ragiona di un patrimonio di esperienze, di un fluire continuo di storie, di racconti, di testimonianze di un’Italia che, una volta divenuta afona, smetterebbe di esistere. È quella parte del Belpaese che spesso racconta il meglio di sé. Che ha ancora il sano desiderio di esserci, di dire la propria, di poter contare qualcosa, nonostante tutto.
Torna, comunque sia, l’eterna questione di questi ultimi anni. Il sostegno all’editoria è un regalo di Stato? Accade così nel resto d’Europa? È vero che l’Ue domanda di chiudere i rubinetti del sostegno pubblico all’editoria? Ai proclami urlati, agli slogan che invadono la Rete, noi rispondiamo con il nostro lavoro sul territorio e con il ragionare pacato.
Il solo mercato, ne siamo convintissimi, non può regolare un settore tanto delicato come quello dell’informazione. Sono troppi gli interessi in ballo. Troppo importante la posta in gioco. La democrazia si alimenta anche con il sostegno a una stampa, oggi quasi sempre ampliata grazie al web, che vigila su chi governa. Un’informazione in sintonia col Paese reale che tenta ogni giorno di svolgere ancora la funzione di cane da guardia per conto dei cittadini-lettori.