Qualcuno li considera una regalìa dello Stato ai giornali di partito. Altri pensano che sia un favore fatto alla Chiesa cattolica. Altri ancora sono convinti che sia un sistema da eliminare in quanto tale, appartenente alla prima Repubblica. Roba d’altri tempi, quando il denaro pubblico fluiva a piene mani.
Stiamo parlando dei contributi pubblici all’editoria, un sistema introdotto in Italia nel 1981 e rivisto nel 1990. Un aiuto al pluralismo informativo di cui si trovano tracce già agli inizi del secolo scorso. Eppure, nell’attuale momento in cui viene travolta ogni vicenda in qualche modo collegabile alla politica, anche gli aiuti alla stampa sono vissuti con estremo malessere da un’opinione pubblica allergica a ogni tipo di sostegno statale.
E pensare che in pochi anni questo particolare fondo si è ridotto in maniera drastica, fino agli attuali 53 milioni di euro a oggi disponibili nel bilancio dello Stato per l’anno in corso. Una cifra del tutto insufficiente, se paragonata con gli almeno 140 milioni necessari per mantenere in equilibrio un sistema che fa acqua da ogni parte.
Sono rimasti margini di manovra risicatissimi per il ripristino del fondo di pertinenza della presidenza del Consiglio dei Ministri. Per cercare di sfruttarli tutti, martedì 20 novembre la Fisc (la Federazione cui fanno capo circa 190 settimanali cattolici per 1 milione di copie a settimana) e altre sigle – tra cui Fnsi, Mediacoop, Confcooperative-Federcultura Uspi – hanno convocato a Roma, all’Hotel Nazionale di piazza Montecitorio, un’assemblea dal titolo “La riforma dell’editoria tra tecnologie e pluralismo”.
La Fisc ha ribadito in ogni sede la necessità di applicare «rigore ed equità» in materia di contributi pubblici all’editoria. Lo ha ribadito anche nel mese di ottobre, durante l’audizione alla Commissione Cultura della Camera dei deputati. Ha sottolineato come anche gli editori non possano sottrarsi ai sacrifici richiesti a tutti i cittadini in questo delicatissimo periodo di crisi economica. Ha rimarcato, però, come non si possa rinunciare di punto in bianco a un sistema che, seppur da migliorare, ha garantito il pluralismo informativo, di certo non secondario per la vita del Paese.
Inoltre la Fisc ha fatto presente che ai settimanali cattolici sono sempre state riservate «briciole di contributi», ugualmente importanti per decine di suoi associati, ma sempre di briciole si tratta. Meno di quattro milioni di euro per una settantina di testate, diverse delle quali rappresentano l’unico giornale di un dato territorio, la voce di comunità locali appartenenti alla provincia italiana.
Ora la situazione si è fatta particolarmente drammatica. Allo stato attuale ai nostri giornali nel loro complesso sarebbe destinato, per il 2012 giunto ormai al termine, solo un milione di euro. Un quarto di quanto necessario per proseguire il lavoro con un minimo di serenità. Una serenità continuamente minacciata dai tagli indiscriminati che la politica intrapresa da mesi in Italia rischia di minare ogni giorno di più. Ne soffrono le testate diocesane e ne soffrono decine di altri giornali che vedono profilarsi all’orizzonte la chiusura come conseguenza di un periodo terribile nel quale si evidenziano solo diminuzioni di lettori, di pubblicità e di contribuzione pubblica.
Non c’è altro tempo da perdere. I bilanci di molti editori soffrono in maniera pesante. Ma si corre il pericolo di un altro tipo di sofferenza, non misurabile in termini di numeri: è la mancanza di confronto, di dibattito pubblico, di quella pluralità di voci di cui questo Paese ha sempre usufruito e che oggi non può permettersi di perdere. L’abbiamo già scritto: per ogni voce che si spegne tutti ci rimettiamo in termini di idee, un patrimonio che non aumenterà il Pil, ma che di certo fa crescere il valore della nostra convivenza, ogni giorno di più minacciata da una diffusa omologazione di pensiero cui non vorremmo mai adeguarci. Per il bene delle comunità locali e dell’intero Paese.