La città di Milano ha avviato da qualche mese un percorso che la dovrà condurre a ripensare il luogo e il significato che l’infanzia potrà avere in essa. Coordinato da un gruppo di esperti e costruito sul coinvolgimento degli operatori dei servizi educativi del Comune, delle famiglie, delle associazioni, questo percorso giungerà a conclusione nel prossimo mese di maggio, quasi in concomitanza con le giornate dell’Incontro mondiale delle famiglie. Una coincidenza interessante, che dimostra come nella nostra società il locale e il globale si implichino a vicenda.
I punti di contatto potrebbero essere molti. Ne isoliamo uno che ci vedrà impegnati come relatore proprio in una sessione del Congresso della famiglia: il rapporto tra la famiglia e la comunicazione digitale. Cellulari, tablet, videogiochi, sono dispositivi attraverso e attorno ai quali si organizzano le pratiche dei più giovani: la costruzione e lo scambio di conoscenza, la relazione, la socialità, le diverse forme della partecipazione. Questo mondo viene spesso visto dalla famiglia come un ulteriore problema da gestire, come l’ennesimo sintomo di una frattura generazionale difficile da colmare.
Essa si interroga su come sviluppare il proprio intervento educativo al riguardo: quanto tempo al giorno possono videogiocare i propri figli? A quale età il primo cellulare? Si può lasciarli navigare senza filtri? Come abituarli a non credere ciecamente a tutto quello che trovano sul Web? Sono domande che accrescono la complessità del compito parentale, già reso difficile da altre variabili: il tempo lavorativo sempre più assorbente, la congiuntura economica non proprio favorevole, le ansie in relazione al futuro cui i figli potranno andare incontro.
La cifra di questo tipo di vissuto è di solito quella della crisi. I media digitali, la loro presenza nelle vite nostre e dei nostri figli, viene abitualmente declinata al negativo: il rischio (della pedofilia), la perdita (della relazione), la caduta (dell’intelligenza). Si tratta di una rappresentazione spesso amplificata dai media: è sicuramente più “notiziabile” un bambino dipendente dai videogiochi che cento suoi coetanei che con i videogiochi intrattengono un rapporto assolutamente normale.
Nel 2010 condussi con il mio Centro di ricerca uno studio sugli oratori della Diocesi di Milano, in collaborazione con la Fom. In quello studio ci proponevamo di capire che rapporto esistesse, nelle rappresentazioni e nelle abitudini di bambini e ragazzi, tra i videogiochi e i giochi tradizionali, e se fosse vero che videogiocare sottrae tempo alle relazioni, isola. La risposta dei ragazzi fu sorprendente. Apprendemmo che in cima alla classifica delle loro preferenze c’è il gioco libero, all’aperto e con gli amici. Internet serve a rimanere in contatto, a sentirsi se non ci si può vedere: e spesso nella metropoli non ci si può vedere perché si abita lontani, perché i genitori non danno il permesso, o semplicemente non ci sono per accompagnarti al parco. Scoprimmo ragazzi normali, molto più normali di quanto spesso non li si creda addebitandone la diversità proprio ai media digitali.
Questa è anche l’indicazione della ricerca, anche di una recente che in Università cattolica stiamo conducendo sul cellulare e sul social network come collante tra le generazioni. Le famiglie più efficaci nella loro presenza educativa sui temi dei media e della comunicazione sono quelle per le quali questi media rappresentano un’opportunità in più per entrare e rimanere in relazione. Sono famiglie che possono liberare il positivo insito nei media, perché il positivo è la situazione di fondo del loro tessuto relazionale.