di Vittorio CHIARI
Alla ripresa dell’anno pastorale e scolastico, uno scrittore laico dal cognome buffo, Pennacchioni, conosciuto dai suoi lettori come Pennac, ci offre l’occasione di riflettere sul nostro essere educatori, genitori o insegnanti, chiamati ad essere “concreatori e suscitatori di speranza”.
Nello scrittore francese, considerato “un somaro” a scuola, diventato poi insegnante e autore di successo, ritrovi atteggiamenti, che fanno di un educatore, un “bravo educatore”, comuni a Don Bosco e al Vangelo.
Pennac deve la sua trasformazione a insegnanti che gli hanno “salvato la vita”, permettendogli di maturare i talenti, che la loro passione educativa ha dissotterrato per renderli attivi, fruttuosi, sana e divertente riflessione a chi legge il suo libro, “Diario di scuola”, edito da Feltrinelli nel 2008.
Alcuni passi li ho adattati al lavoro educativo più che a quello didattico, di cui parla Pennac e li ho trascritti per i miei educatori che lavorano con ragazzi ai quali sembra sia stato vietato il futuro, considerati persi, falliti in partenza, bollati da sempre come irrecuperabili, scomodi, inutili, portandosi sulle spalle un peso di sofferenze, che sembra impossibile calcolare.
Se poi allo stigma di “somaro” aggiungi quello di “extracomunitario” o di “figlio di alcoolizzato” o di “delinquente” o di “lazzaroni”, alla sofferenza del ragazzo si assomma quella del padre o della madre, che non vedono un’uscita di sicurezza dai problemi del figlio, si sentono impreparati a gestire il suo disagio, loro stessi si sentono giudicati male per questa incapacità a educare, che a volte è inettitudine o fuga dalla loro responsabilità di genitori
Certe sentenze inappellabili, – “Con te c’è niente da fare!” – pronunciate in classe o peggio ancora, in ambienti di credenti, uccidono la speranza e mortificano il ragazzo.
Che cosa fare allora con questi ragazzi? Con tutti i ragazzi? Pennac ha individuato il segreto in una parola che non osava esprimere ai suoi colleghi. “Il metodo non basta, dice Pennac. Gli manca qualcosa”.
“Che cosa gli manca?”. “Non posso dirlo”. “Perché?”. “E’ una parolaccia”. “Peggio d’empatia?”: “Neanche da paragonare. Una parola che non posso assolutamente pronunciare in una scuola, in un liceo, in una università, o in tutto ciò che le assomiglia”. “E cioè?”. “No, davvero non posso…”. “Su, dai!”. “Non posso, ti dico! Se tiri fuori questa parola parlando d’istruzione, ti linciano”… La parola è “L’amore”.
Su di essa Don Bosco ha fondato l’istruzione e il suo educare: per lui qualsiasi metodo aveva valore quando c’era un rapporto d’amore, mancando il quale, ogni metodo si rivelava fragile nei risultati.
In educazione, l’amore è il prezzo da pagare se si vuole essere “concreatori e suscitatori di speranza”. Si è concreatori perché, come una madre, l’educatore genera un ragazzo o una ragazza a vita nuova; suscitatori di speranza, in quanto crede che ogni ragazzo e ogni ragazza “redimibile”, “possibile di cambiamento”.
In un discorso, tenuto al Centro Salesiano di Arese, il cardinal Martini ricordava che i ragazzi, tutti i ragazzi, hanno bisogno di adulti che combattono atteggiamenti contrari alla carità, all’amore educativo, quali l’impazienza, la malignità, l’invidia, la vanteria, il mancare di rispetto, l’arrabbiarsi per niente, il rendere male per male, per vivere la carità, vero miracolo sociale e civile.
Ad essa siamo chiamati, se vogliamo dare un volto nuovo al nostro vivere insieme, in famiglia, a scuola, nella società. In caso contrario, siamo costretti ad accettare quella “violenza giovanile”, che tanto ci spaventa e di cui sono piene le cronache dei giornali.