10/12/2008
di Pino NARDI
«La tre giorni di Caravaggio – che è già un appuntamento consolidato – dovrebbe aprirsi a un dialogo più fitto tra la dimensione regionale e quella nazionale. L’investimento della Chiesa italiana sul fronte della comunicazione è innegabile in questi ultimi anni e tuttavia l’elemento che mi appare più debole è proprio la capacità di collegare la realtà nazionale con quella locale». Don Domenico Pompili, responsabile dell’Ufficio comunicazioni sociali della Cei, sottolinea la necessità di una strategia che valorizzi insieme i media cattolici, nazionali e diocesani. Il tema sarà al centro della tre giorni, dal 12 al 14 dicembre, promossa dagli Uffici di comunicazioni sociali della Lombardia.
Quale ruolo possono svolgere i media cattolici nel panorama editoriale? « Il 40° anniversario di «Avvenire» ci dice qual è la dimensione nazionale: l’esigenza di raccordare il popolo dei cattolici, attraverso uno strumento unitario come il quotidiano, allargandosi alle altre forme della comunicazione fino ad arrivare a Internet, che è la nuova grande frontiera – sottolinea don Pompili -. Occorre essere contestualmente globali e capaci di interloquire con il locale. In questi tre giorni cercheremo di dialogare valorizzando quello che c’è già sul territorio, ma facendo notare la connessione con la dimensione nazionale: «Avvenire», Sat2000, Radio In Blu, il sito dell’Ufficio comunicazioni sociali nazionale».
Una presenza storica la svolgono i media diocesani. Ma quanto incidono ancora in una situazione globalizzata e frammentata? «Gli strumenti diocesani e locali rispecchiano la struttura stessa della Chiesa, che ha sempre un forte radicamento territoriale – risponde don Pompili -. Noi sappiamo che è anche una grande risorsa, perché garantisce il contatto con la base. Èun elemento che va sostenuto, valorizzato e possibilmente potenziato in collegamento con le nuove tecnologie. Lo stesso giornale diocesano deve potersi aprire a sinergie con radio, tv e Internet. Però nello stesso tempo occorre continuare a declinare questo aspetto nazionale, per uscire fuori da un campanilismo che a volte rischia di essere asfissiante. Tenere insieme queste due modalità mi pare sia la sfida che abbiamo davanti, con uno scambio reciproco».
Da anni la Chiesa, nelle sue varie articolazioni, sta investendo sulla comunicazione. La professionalizzazione può dare più solidità a questi strumenti? «Sì, la scelta fatta in modo evidente va nella linea anche di una professionalizzazione – concorda il responsabile nazionale – che significa capacità di rispettare il linguaggio specifico di ciascuno strumento e investire soprattutto su laici qualificati, che posseggano una doppia competenza: quella che nasce dalla propria visione di fede, che ispira la lettura della realtà, e la capacità di "possedere" il linguaggio giornalistico».
Fondamentale l’impegno dei giornalisti che operano nei media cattolici, ma che trovano un valido supporto negli animatori della comunicazione nelle parrocchie. «Se le idee sono decisive, camminano sempre con le gambe delle persone. E queste in primo luogo sono gli animatori della comunicazione e della cultura, che dovrebbero in ciascuna comunità cristiana tenere alta la sensibilità per l’aspetto della comunicazione, non per farne un oggetto riservato a pochi, ma da far lievitare in tutto l’agire ecclesiale. Quindi non solo nella comunicazione ad extra, comunque prioritaria, ma anche nelle forme consuete di comunicazione della fede».