19/09/2008
«Siracusa – ha ricordato don Pompili – insieme a poche altre località italiane, può storicamente documentare, sia pure in circostanze drammatiche, una qualche presenza dell’Apostolo delle genti. Per questo cercherò di rileggere la coppia di termini che mi è stata assegnata, tenendo conto certo dello scenario del giornalismo cattolico, ma lasciando emergere l’esperienza di un’irripetibile e, perfino, insuperabile leadership comunicativa». Secondo Pompili, sono «almeno quattro le suggestioni che Paolo ci offre con la sua esperienza». Queste emergono dalla sua “identità”, dallo “stile”, dalla “qualità relazionale”, dal suo “sguardo” e “riguardano da vicino il nostro agire comunicativo”.
San Paolo, ha detto Pompili riflettendo sulla “sua identità”, appare come «un idealista appassionato, perché ha fatto l’esperienza di un incontro che gli ha cambiato la visione della vita». Per questo, «sente di dovere anche agli altri questa sua scoperta. A pensarci, la comunicazione prima che essere un problema di mezzi è questione di avere qualcosa che ci urge dentro da dover dire a qualcuno altro». Secondo Pompili, «quando manca una nitida identità fatalmente si va a rimorchio di un’informazione dopata . Non possiamo negare che la cosa possa riguardare anche noi, quando perdiamo la “visione” complessiva che dal Vangelo è possibile ricavare ».
In concreto, «saper “dire qualcosa di cattolico” è oggi come sempre non un limite, ma probabilmente l’unica possibilità di essere interlocutori credibili e presenti nella piazza mediatica». Un’altra caratteristica di San Paolo, ha proseguito Pompili, emerge dal suo «stile che tradisce un singolare mix di stati d’animo e rivela un linguaggio che si adatta alle mutevoli circostanze». Da qui l’importanza di intercettare le “aspettative” dei “lettori della stampa cattolica”: questi «non chiedono al giornale solo un aiuto per identificarsi come cattolici e di guidare la loro valutazione dell’attualità, ma anche di seguire ciò che accade nella Chiesa per un’appartenenza più consapevole . Questa esigenza deve essere empaticamente raccolta».
Le altre due suggestioni emergono dalla “qualità relazionale” e dallo “sguardo” di San Paolo. La prima, ha spiegato Pompili, viene «dalla sua corrispondenza e lascia intuire non un soggetto isolato ma piuttosto un gioco di squadra». Per il direttore dell’Ufficio Cei, «se applichiamo la qualità relazionale di Paolo al sistema dei media all’interno delle nostre realtà ecclesiali, ci rendiamo conto che esiste obiettivamente una dispersione; in particolare, a livello diocesano, dove ogni strumento tende a procedere al di fuori di un progetto condiviso».
Per questo, è importante «lavorare con impegno per ridare soggettività all’ufficio diocesano per le comunicazioni sociali. E’ a questo livello che tutto può ritrovare una forma strategica, valorizzando le potenzialità di ciascuno». Dallo «sguardo concreto e buono di Paolo, sempre ispirato da una compassione di fondo e attratto da fatti e volti riconoscibili risalta la necessità per il linguaggio ecclesiale di essere maggiormente declinato sul piano pragmatico».
Per Pompili, «a rendere ancora più necessario nella comunicazione ecclesiale il ricorso ai fatti c’è il motivo che in origine il messaggio cristiano è una notizia, una testimonianza». Accanto a «questo realismo nel raccontare i fatti” c’è “un’ultima qualità: la capacità di uno sguardo che sappia sempre conservare un tratto di compassione e mai eccedere nel giudizio o evadere nel futile».