Il seminario di studio a Seveso «In 120 caratteri comunicare la Chiesa», per i responsabili e le persone impegnate nella comunicazione diocesana, è stato aperto dall’intervento di Chiara Giaccardi, docente di Antropologia dei media all’Università Cattolica di Milano, sul tema «Le condizioni per una relazione autentica». La domanda che le è stata rivolta, nell’introdurre la sua relazione, era appunto: «A quali condizioni la Chiesa comunica in modo autentico sui social media?». La relatrice ha subito rilanciato: «E a quali condizioni noi cristiani siamo autentici e quindi possiamo essere autentici anche sui social media? Si presuppone che noi abbiamo una identità nella realtà, in aula con i nostri ragazzi e in parrocchia con gli anziani, e dovremmo fare in modo che rimanga tale su Facebook e su Twitter. Quindi l’idea è quella di fare un passo indietro e di recuperare come ci provoca il mondo di oggi che è complesso e disarticolato».
Premesso che la comunicazione prima di tutto è legame, incontro, e questo contatto può avere strumenti differenti e uno non esclude l’altro, «il contesto in cui ci stiamo muovendo è quello di un mondo “misto” – ha proseguito Giaccardi -. Forse abbiamo già acquisito che il locale e il globale non sono due dimensioni alternative, ma sono compenetranti e non c’è l’una senza l’altra. Così come forse stiamo acquisendo il fatto che nel mondo “misto” in cui viviamo il reale e virtuale non sono in contrapposizione; anzi, il digitale ci può aiutare, potenziando la nostra capacità di azione, di comunicazione sul territorio, e rispetto agli incontri faccia a faccia la comunicazione digitale li precede e li prosegue. In più i social media consentono di arrivare ai lontani, ma anche di mantenere e vivere le relazioni con chi hai già vicino e che ha bisogno di essere accompagnato».
Riguardo alle comunità cristiane, ai parroci magari settantenni, che si sforzano di capire in che mondo vivono e come raggiungere in particolare i giovani, Giaccardi ha voluto rassicurare i presenti, sacerdoti e laici di ogni età impegnati nella comunicazione parrocchiale: «Non è una questione di tecnica, ma occorre capire le logiche del web e partire da qui per costruire una relazione. Quindi possiamo anche non sapere come si costruisce un sito, ma dobbiamo sapere che cosa vuol dire avere una socialità che si sviluppa su un territorio misto». A partire dalla consapevolezza che «una frase depositata su Twitter può essere un seme che poi germoglia in un modo anche imprevisto dall’intenzionalità di chi l’ha scritta». Perciò è sbagliata «l’idea di riuscire a controllare tutti gli effetti delle parole o appunto di voler prevedere e contenere tutti gli effetti possibili. Dobbiamo avere invece l’idea del seminatore che lascia la libertà al seme di germogliare».
L’esigenza di un cambiamento, per cogliere veramente il segno dei tempi, non deve però far dimenticare il contributo che può portare la Chiesa in questi «territori nuovi»: «Il credente fondamentalmente è uno che fa memoria e il web può essere un luogo di memoria – ha precisato Giaccardi -. Credo che appunto non sia soltanto il luogo dell’esibizione momentanea e superficiale di sé, ma sia anche il luogo in cui è possibile depositare e condividere le tracce di quel passato e di quella memoria che ci rende ciò che siamo». In definitiva, ha concluso, «il web è un’occasione in più, proprio perché è basato sull’idea della connessione, per ridurre le distanze e abbracciare la pratica della testimonianza, cioè della parola incarnata, che può essere incarnata anche sul web».