«Come ricordi tuo padre?».
«Che cosa hai provato in quel momento?».
«Dov’eri quando è successo il disastro?».
«In che modo sei riuscito a salvarti?».
Già poste così, a freddo e per iscritto, domande simili hanno un che di agghiacciante. Quando poi vengono rivolte in diretta da un giornalista a una persona inerme o, addirittura, a un minore che si sono trovati coinvolti in una tragedia, diventano intollerabili.
Eppure questa pessima abitudine non soltanto non si sradica dalla modalità contemporanea di fare giornalismo televisivo, ma anzi ne è diventata una cifra stilistica. A poco vale che di tanto in tanto qualcuno, colpito dagli eccessi, si stracci le vesti e condanni il professionista di turno. Certe trovate, a quanto pare, alzano l’audience e qualche direttore di testata probabilmente le ritiene addirittura esempi di “buon giornalismo”, capaci di coprire tempestivamente l’attualità quotidiana.
Gli ultimi due casi in ordine di tempo sono andati in onda in questi giorni. La scorsa settimana, subito dopo l’incidente al porto di Genova in cui una nave ha investito una torre di servizio provocando morti e feriti, nel corso di un’edizione del Tg2 delle 20.30 è stato trasmesso un servizio in cui un giornalista insistente e (auto)compiaciuto intervistava il figlio di un uomo prima dato per ferito e poi scoperto morto. Il ragazzo sembrava quasi assente, parlava del padre al presente come se fosse ancora vivo e manifestava la prevedibile instabilità emotiva che una persona attraversa di fronte alla notizia della morte di un congiunto. Domande e risposte nulla aggiungevano ai contenuti della notizia.
Due settimane fa ha destato clamore l’intervista che un gruppo di giornalisti ha fatto al figlio undicenne di Luigi Preiti, l’uomo che ha sparato ai carabinieri davanti a Palazzo Chigi. L’intervista è stata trasmessa da SkyTg24 e da altre emittenti nazionali, restando per diverso tempo a disposizione del pubblico anche online. Solo dopo che qualcuno ha protestato, il video è stato rimosso dalla rete. L’artificio di riprendere il bambino di spalle e coperto dal cappuccio di una felpa e il consenso che, secondo l’autrice dell’intervista, avrebbe dato la madre del bambino, non possono in alcun modo giustificare la mancata tutela del minore in questione e la scelta di puntare ancora una volta sul sensazionalismo più cinico. A che cosa serve, infatti, mandare in onda una simile intervista? E, soprattutto, in quale conto viene tenuto l’obbligo – imprescindibile per un giornalista, come per chiunque altro – di tutelare sempre e innanzitutto i diritti dei minori?
Su questo tema la deontologia parla chiaro. La Carta di Treviso e la Carta dei doveri del giornalista impediscono di puntare i riflettori su minori coinvolti a qualunque titolo in casi di cronaca, di garantirne la non riconoscibilità, di tutelare il loro interesse a uno sviluppo armonico al di sopra di qualunque altro. Ma, prima ancora di scomodare il dettato dei codici deontologici, per prevenire certi abusi sarebbe sufficiente un minimo di buon senso.
Il problema ha un orizzonte più vasto e generalizzato, che non riguarda soltanto i minori: quella di puntare la telecamera e il microfono contro lo sventurato di turno è una prassi ormai abituale. Come non ricordare i giornalisti d’assalto che, in piena notte, andavano a bussare ai vetri delle auto in cui dormivano i superstiti del terremoto dell’Aquila, rimasti senza casa, per chiedere: «Come mai dormite qui?». Succede spesso, per non dire sempre.
Se può avere un senso giornalistico recarsi sul posto in cui si è verificato un evento tragico per cercare di spiegarlo anche attraverso le parole dei testimoni, non ne ha alcuno questo saccheggio dei sentimenti a beneficio dello share. È un fenomeno sul quale, peraltro, non sempre l’Ordine dei Giornalisti e l’Autorità garante delle comunicazioni esercitano la necessaria vigilanza.