A prescindere dell’entità della pena, peraltro temporaneamente sospesa, la conferma da parte della Corte di Cassazione della sentenza che condanna Alessandro Sallusti a 14 mesi di carcere per diffamazione riporta l’attenzione su un dato etico incontrovertibile, che si può riassumere in tre punti. Primo: quello del giornalista è un lavoro di pubblica utilità, come definito dalla Legge n. 69 del 1963 che regola la professione e dalla Carta dei Doveri del 1993 che ne esplicita alcune declinazioni. Secondo: un giornalista che sia riconosciuto tale dall’iscrizione all’Albo di categoria deve sempre essere responsabile di ciò che dice o che pubblica, secondo la specificità del suo ruolo. Terzo, non certo ultimo: il primo dovere assoluto del giornalista è la ricerca – e la conseguente comunicazione – della verità.
Nel caso di Sallusti, ex direttore di Libero attualmente alla guida del Giornale, la motivazione della sentenza d’appello, confermata dalla Cassazione, appare inoppugnabile. Se la pena sia congrua o meno è materia di discussione fra giuristi, ma che il giornalista abbia usato in maniera impropria il suo potere è un dato sancito dai giudici. Come pure è stato sottolineato che il contenuto diffuso dal giornale di cui egli era allora direttore era falso. Volenti o nolenti, Sallusti e l’autore dell’articolo incriminato (con lo pseudonimo Dreyfus) hanno diffuso un contenuto giornalistico che è stato giudicato diffamatorio nei confronti di uno dei soggetti di cui si parlava e per questo il direttore del Giornale è stato condannato.
Al di là dell’eventuale revisione delle norme di legge in vigore, è perfino superfluo scomodare la proverbiale retorica secondo cui «ne uccide più la penna che la spada», per ribadire la necessità che un professionista dell’informazione non dimentichi mai che la sua facoltà di scrivere può diventare a tutti gli effetti un’arma. E che, per questo, va esercitata con buon senso e nel rispetto delle regole.
Non bisogna nemmeno confondere la libertà d’espressione e di critica che è un sacrosanto diritto del giornalista con la facoltà di offendere l’onore e la reputazione altrui a proprio piacimento. Un simile fraintendimento, invocato maldestramente da qualcuno come difesa dell’autonomia professionale, finisce per screditare l’intera categoria professionale.
Anche il comportamento bizzoso di Giuliano Ferrara offre il destro a qualche considerazione sulla responsabilità dei professionisti dell’informazione. Il direttore del Foglio, titolare del privilegiato spazio preserale di Radio Londra su Rai Uno, si è rifiutato di andare in onda dopo che il direttore di rete, Mauro Mazza, aveva sospeso la trasmissione della puntata realizzata prima dell’annuncio delle dimissioni da parte del presidente della regione Lazio, Renata Polverini. Nella registrazione, che sarebbe andata in onda dopo le 20.30, Ferrara chiedeva alla Polverini di dimettersi, ma lei lo aveva già fatto quasi un paio d’ore prima.
Offeso per la decisione di Mazza, Ferrara ha deciso di sua iniziativa di chiudere la trasmissione, accusando i vertici Rai niente meno che di mobbing. Al di là del rispetto che un buon giornalista dovrebbe a chi davvero è vittima di discriminazione professionale e ne paga sulla sua pelle le conseguenze, il comportamento di Ferrara somiglia molto a quello che – se si trattasse di un bambino – si potrebbe definire un capriccio.
Interpellato sulla sua decisione di non andare in onda, il giornalista ha risposto che sono “affari” suoi. In realtà sono affari anche nostri, di noi spettatori che paghiamo il canone del servizio pubblico (che in non trascurabile parte finisce anche nelle sue tasche) e che riconosciamo – sempre più a fatica, peraltro – la missione sociale della Rai. La scelta di Ferrara è figlia di una mancanza di rispetto verso la tv pubblica e verso gli spettatori.