Da tempo ormai non si vedeva a Milano una nebbia come quella che sveglia la città al mattino e la avvolge al tramonto in queste intirizzite giornate di novembre. È una coltre leggera che sfuma i contorni, rende labile la fisionomia delle cose. Quasi una metafora dei tempi che attraversiamo, e che osservando la città dalle finestre della sede arcivescovile su piazza Fontana richiama un’immagine ambientale cui il cardinale Angelo Scola ha fatto ricorso da patriarca di Venezia: il malfermo incedere sull’acqua di una società incerta e confusa. Nebbia e acqua: cambia la scenografia, non l’inquietudine e la sfida. Nell’ora e mezza di colloquio che il cardinale concede ad Avvenire – la prima intervista da quando è tornato nella “sua” terra ambrosiana, il 25 settembre – sfide e impegni per la Chiesa, i credenti, la città si intrecciano in una trama e in una visione nella quale siamo tutti presenti.
Eminenza, lasciataVenezia, in questi due mesi che Chiesa ha trovato a Milano?
Circostanze provvidenziali hanno fatto sì che, la scorsa settimana, io abbia potuto compiere un breve pellegrinaggio in Terra Santa con 700 veneziani a conclusione della Visita pastorale. Perché andiamo in Terra Santa? Per calcare le orme di Gesù. Quando sosti davanti al Sepolcro, quando metti la faccia nella cavità dove venne piantata la sua Croce, o vai alla fontana dove sai che Maria e probabilmente Gesù stesso hanno attinto acqua, percepisci la presenza imponente e reale di Cristo. Una presenza che vince la storia. Di questo la Chiesa è sicura. Il tarlo che rode oggi tanta cultura e anche molti battezzati è l’obiezione per la quale Cristo sarebbe un fatto del passato. Invece Cristo ci è contemporaneo. Per venire alla domanda, nel popolo ambrosiano ho potuto cogliere la presenza attuale del Signore.
Come essere all’altezza di questo compito?
Il punto è questo: prendere coscienza che noi siamo, per dono dello Spirito, il “segno” e lo “strumento”, come si legge in Lumen Gentium, della contemporaneità di Cristo. Perché, come Kierkegaard ha acutamente affermato, solo chi mi è contemporaneo mi può salvare. Il non esserne sempre coscienti genera un “fare” carico di generosità, ma spesso frammentato e, quindi, difficilmente comunicabile. Se si perde la consapevolezza di questo punto originario che garantisce l’unità dell’io e della comunità, l’azione ecclesiale rischia di ridursi a erogare “servizi”. La frammentarietà è un’insidia molto pericolosa.
Vede un eccesso di attivismo?
Il problema è dove poniamo il baricentro del “fare”: sull’organizzazione o sull’esperienza di un rapporto – quotidianamente rinnovato – con Gesù e con i fratelli? A volte è come se ci fosse una strana reticenza a comunicare Colui che ci muove, che è il Signore. La testimonianza dev’essere umile, ma è inesorabile. Non si può essere tiepidi. Ci sono però fronti del “fare” in cui la novità dell’io cristiano è prorompente. Penso, soprattutto, alla condivisione delle fragilità e del dolore. Lì il cuore dell’esperienza cristiana s’impone quasi da sé, perché in quelle condizioni si sperimenta la forza della fraternità tra gli uomini che Gesù ha suscitato nella storia.
Che cosa rende convincenti i cristiani oggi?
La via della testimonianza che scaturisce dall’esperienza di relazioni profonde, costitutive, che esaltano la libertà e passa attraverso un modo di raccontarsi nel quotidiano quasi incontenibile e aperto a tutti. Qui sta il movente reale dal quale partire ogni mattina. Siamo appassionati alla missione, cioè al comunicarsi pieno di gratitudine di ciò che gratuitamente ci è stato dato. Non cerchiamo l’egemonia sulla società: i cristiani non sono gli agit-prop di un’azienda che devono vendere un marchio. Siamo gente che – per grazia di Dio e al di là di limiti, fragilità e peccati – ha scoperto il gusto della vita. E questo inesorabilmente tende a comunicarsi.
Appena arrivato a Milano, lei è andato incontro alla città nel corso di quattro incontri tematici con altrettante realtà vive, e poi l’ha invitata a casa sua, in Duomo, per le Messe delle domeniche d’Avvento. Che cosa sta incontrando in questo dialogo?
Ho trovato mondi stimolanti, una città cosciente di essere sul proscenio europeo e mondiale. Ho voluto che il primo incontro fosse con chi opera negli ambiti della fragilità perché su questo fronte si vede il grado di civiltà di una società. Ho sottolineato l’unità della persona perché produce l’unità degli ambiti e dei mondi in cui vive e opera. La frammentarietà è la causa di tanti inconvenienti anche a livello sociale. Invece la vera genesi di una società civile, come diceva Aristotele, è la filìa, l’amicizia civica. Ne abbiamo bisogno più che mai, in questo tempo di grave affanno. Per arrivare a una amicizia civica di questo tipo serve buon governo a tutti i livelli, dalla famiglia al condominio, dal quartiere alla città, dal Paese all’Europa.
Unità, amicizia civica, buon governo: come ci si riappropria di queste categorie nel concreto?
Il Papa nella Caritas in veritate indica la necessità di allargare la ragione politica, economica, culturale attraverso la logica del dono, del “gratuito”. Ma, attenzione, il gratuito non è ciò che è gratis. Il gratuito è pensare, fare, realizzare un’opera perché è buona in sé, perché è bella in sé. Anteponendo il valore oggettivo dell’opera in sé e per sé all’utile o all’interesse che se ne può ricavare. L’utile e l’interesse hanno certo la loro importanza, ma prima viene la cosa in sé. La filìa e il buon governo fioriscono da questa dimensione gratuita del civile, del sociale, del politico, del culturale. È questo che rende unita, feconda e virtuosa una società perché introduce una dimensione veritativa nella relazione di cittadinanza. Se una città lucida come Milano sottovaluta questa idea del gratuito, non riuscirà a sprigionare tutto ciò che ha dentro in termini di risorse e prospettive.
Lei ricorda spesso che oggi le persone – i cittadini, i credenti – stentano a rimettere insieme le dimensioni della propria vita. Qual è il motivo profondo di questa sua preoccupazione?
La frammentazione dell’io accentua l’inconveniente della post-modernità che consiste nella caparbia affermazione di una identità personale individuale e isolata, per cui i legami sono sentiti come un’obiezione alla libertà, mentre sono una condizione della nostra libertà. È questo che i cristiani propongono nella sfera civile, perché è la loro esperienza normale. Ed è la prima “politica” che sono chiamati ad attuare.
Come si rigenerano relazioni che sembrano a volte tanto logorate da apparire irrecuperabili, anche nella comunità cristiana?
L’uomo si muove veramente solo per convinzione. Domandiamoci per un istante: cosa davvero mi persuade? Mi persuade il percepire con chiarezza che la sequela di Cristo mi “conviene”, che seguendo Cristo sono più compiutamente uomo: amo, lavoro, condivido, ho sete di giustizia e di pace, vivo tutto, persino la morte, in maniera diversa. Che questa sia la strada per invertire la rotta ce lo documentano i martiri, come Bhatti, il cristiano pakistano ucciso mentre difendeva la libertà dei suoi fratelli, o il priore di Tibhirine. Da dove è venuta loro quell’energia che li ha condotti fino al dono totale di sé? Dall’aver visto e toccato, nella fede, che questa prospettiva consente di vivere sin d’ora un’umanità potente, un anticipo di vita eterna. Più che mai nell’attuale frangente storico di transizione rapida e non senza traumi, i cristiani sono chiamati a passare da una fede per convenzione a una fede per convinzione.
E questo come si declina per la sua Milano?
Nel milanese, per esempio, si può ancora sperimentare il gusto del lavoro di cui parla Péguy: è il lavoro in sé che deve essere ben fatto, al di là del suo valore di mercato. Si percepisce che esso consente di creare una trama di relazioni tendenzialmente buone con gli altri e col creato. Ma se il lavoro è vissuto in maniera separata dagli affetti, può anche assumere una fisionomia parossistica (il “lavorismo”, un difetto molto milanese). La persona ha bisogno di un centro: se c’è, tutte le dimensioni vitali si dipanano armonicamente e, anche quando entrano in tensione, non spezzano mai l’unità dell’io.
Anche in questo senso la Chiesa resta un punto di riferimento per la sua risposta alla grande questione irrisolta del nostro tempo, che è quella educativa. Come si rende persuasiva oggi la “vita buona del Vangelo” cui sono dedicati gli Orientamenti della Chiesa italiana per il decennio?
Penso a comunità cristiane dove si possano invitare le persone, dicendo loro, come Gesù ai suoi: “Venite e vedete”. Comunità che assecondino fino in fondo la realtà a partire dal dono che Gesù ci fa di sé, attraverso il quale ci rende fratelli. Nel mondo in cui viviamo questa non è un’affermazione statica, ma è sempre preceduta da un “andare” – quello quotidiano di ciascuno di noi: a scuola, al lavoro, nel quartiere – ascoltando il bisogno dell’altro… Si tratta, per me cristiano, di invitare chi incontro nella comunità cristiana, che è casa mia. La Chiesa è una grande famiglia, non un’azienda.
Eppure, sui media e in certe polemiche, si tende a proporre proprio così l’immagine della Chiesa, come una sorta di “azienda” tra le altre, meno convincente e popolare di altre…
Quello italiano resta un cristianesimo di popolo. Non è una mera questione di chiese più o meno piene, ma di riconoscere che larga parte del nostro popolo è ultimamente riferita alla grande tradizione cristiana. Il punto è come accompagnare modalità diverse di partecipazione a una appartenenza piena alla Chiesa: quella dell’impegnato che si coinvolge oltre la Messa festiva, quella del cristiano della domenica, di chi frequenta solo talune feste, di chi viene solo per un matrimonio, un battesimo, un funerale, di chi si sente cattolico, ma ha perso la strada di casa. Il problema, oggi, è come irrobustire anche la più esile pianticella. Sono convinto che questa azione ecclesiale abbia inevitabilmente un influsso benefico sulla società civile. Nella storia di Milano è stato sempre così. Bisogna forse tornare a capire che non è anzitutto la legge a fare un cittadino in senso pieno, ma la virtù. San Tommaso diceva che lo scopo della legge è educare a vivere secondo virtù.
Recentemente lei ha parlato di un Paese “esausto”: da cosa può riprendere energia?
Alla vita civica sono necessari atteggiamenti virtuosi. Altrimenti anche il sacrosanto discorso su moralità e legalità si scontra con la strutturale fragilità umana. Occorre tornare alla sostanza virtuosa della vita personale e associata, a uno stile di vita in cui ogni atto sia posto secondo tutta la pienezza di bellezza, bontà e verità che gli è propria.
E sul piano pubblico, su cosa si può fare perno?
Qui mi aiuta Venezia: tutta la laguna è punteggiata dalle “brìcole”, grandi pali solidi che delimitano i canali dove le imbarcazioni possono navigare senza insabbiarsi. Ecco: noi abbiamo bisogno di qualcosa di solido per orientarci, di riferimenti certi, a partire dalle relazioni primarie costitutive: la famiglia, la città, il quartiere, la parrocchia… In questo – voglio sottolinearlo – l’Italia ha un indubbio vantaggio: la nostra società civile è certamente la più ricca d’Europa.
Se ne sono accorti coloro che fanno di questa nostra realtà un modello: la big society…
Già, non esiste popolo che come il nostro dia vita in continuazione a realtà associate a tutti i livelli. Bisogna continuare, pazientemente, a costruire dal basso, in modo che la politica torni a essere se stessa, cioè a governare e non a gestire la società civile.
Nell’omelia del suo ingresso a Milano ha parlato del «mestiere di vivere» che schiaccia «uomini e donne delle generazioni intermedie». Che cosa intendeva dire?
Mi preoccupa che le generazioni intermedie, dai 20 ai 60 anni, siano come sparite dalla vita ecclesiale, e spesso da quella civile, perché oppresse dall’affanno del quotidiano, dai ritmi di lavoro, dalle ferite affettive. Normalmente queste persone non sono contrarie alla fede, ma non vedono più che cosa c’entri con la loro esistenza. Ecco perché l’azione della Chiesa deve spingersi negli ambienti di vita, tra le persone. La parrocchia resta centrale, perché è la “chiesa” tra le case, ma non possiamo più aspettare le persone sotto il campanile.
Milano si accinge a ospitare l’Incontro mondiale delle famiglie, a fine maggio 2012. Che cosa si aspetta?
Sono tre gli aspetti per me preziosi di questo grande evento fortemente voluto dal cardinale Tettamanzi. La scelta del tema è di per sé molto felice: offre un’occasione straordinaria per ricondurre a unità le dimensioni di vita comuni a ogni uomo: gli affetti, il lavoro, la festa. L’evento come tale, poi, metterà alla prova il nostro senso di ospitalità. Molte migliaia di famiglie giungeranno da tutto il mondo. Se c’è una terra dell’ospitalità, è quella “terra di mezzo” che è Milano. Potrà inoltre suggerire uno stile con cui guardare da una prospettiva nuova il problema dell’immigrazione. Lo si può affrontare con equilibrio, restando magnanimi.
E ci sarà il Papa…
E questo è il dono più grande. Papa Benedetto viene a noi, e non come uno che arriva da fuori: il successore di Pietro è, per sua natura, immanente a ogni Chiesa particolare. La sua straordinaria venuta ci aiuterà a capire la sua presenza ordinaria tra noi. Diventerà un’occasione per riscoprire questo fattore che dà pienezza e senso compiuto alla nostra Chiesa ambrosiana. Inoltre consente a noi cristiani di ricordare che il compito affidato a Pietro da Gesù stesso è di confermare i suoi fratelli nella fede. Ciò vuol dire che qualunque cristiano ha bisogno di “essere confermato” dal successore di Pietro, nessuno di noi può farcela senza questo elemento. Gesù non ha fondato la sua Chiesa sull’intelligenza di umani ragionamenti, ma sugli apostoli in unità con Pietro.
A Milano, come altrove, si propongono più modi di intendere e definire la famiglia…
Propongo di tornare alle cose in se stesse, chiamandole col proprio nome. Il nome “famiglia” si addice al matrimonio inteso come rapporto pubblico, stabile, aperto alla vita tra un uomo e una donna. Abbiamo rispetto per tutte le persone, non c’è alcuna pretesa di giudicare chi non condivide questa nostra visione e pensa di poter realizzare diversamente la propria personalità e la propria sfera affettiva. Siamo aperti a veder regolate in termini rigorosi le loro richieste, ma senza che questo, andando oltre la sfera di un adeguato diritto privato, alteri direttamente o indirettamente l’autentico concetto di famiglia.
Chi più risente del respiro corto della nostra società sono i giovani, inquieti, “indignati”, talvolta anche arrabbiati. Che cosa dire loro?
Quando li incontro, e a Milano mi è già capitato più volte in breve tempo, faccio notare come tutti dicano loro che sono “il futuro”, ma questo non sarà possibile se non sono il presente. Ciò domanda educazione, che consiste nel trasmettere ai giovani il senso compiuto del vivere. Penso che la scuola e l’Università vadano ripensate in termini non solo di riforma strutturale, ma di concezione. Il rapporto col mondo del lavoro, poi, non può essere puramente strumentale: l’educazione è dotata di un valore in sé, che viene prima della funzionalità dell’esito scolastico. Al di fuori di questo largo orizzonte, ogni discorso rivolto a giovani suona demagogico.