Nella sua lettera per il tempo dopo la Pentecoste, monsignor Mario Delpini affronta i temi legati alla fase di ripresa della vita e dell’attività post-Covid della nostra città, dandone una lettura sapienziale che abbraccia diversi aspetti dell’esperienza umana.
Fra di essi in particolare il tema del lavoro che, come rileva l’Arcivescovo, «è necessario per guadagnarsi il pane e per la propria dignità»: è importante la sottolineatura del dato immateriale – la dignità- insieme a quello materiale, il pane. Infatti nella fase delle chiusure è stato per tutti evidente che il lavoro è condizione per la realizzazione di sé, della persona e per la tenuta della coesione sociale.
Il lavoro corrisponde all’intima natura della persona umana. In questi mesi il lavoro ha invaso lo spazio delle famiglie, ci ha rinchiuso e distanziato, ci ha preoccupato per le prospettive incerte e per molti ha già significato la perdita dell’impiego e grandi difficoltà economiche. Problemi, fatiche e drammi che non hanno colpito tutti nella stessa misura. Ancora una volta si è evidenziata la fragilità di un mondo del lavoro fatto di inclusi ed esclusi, di tutelati e non tutelati.
Con le parole di papa Francesco nella sua recente lettera dedicata a San Giuseppe, l’Arcivescovo ci ricorda che «la persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che ci circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso».
Così la normalità che desideriamo sarà veramente “nuova” se saranno corretti alcuni degli aspetti più smaccatamente ingiusti della società che conoscevamo prima del febbraio 2020: la pandemia ci ha fatto toccare con mano, per esempio, la durezza della condizione dei riders, che hanno svolto un ruolo indispensabile nei giorni in cui nessuno poteva uscire di casa. Più in generale, i giorni del lockdown hanno evidenziato la drammatica frattura esistente fra un gruppo di persone più o meno largamente garantite nel loro reddito, che hanno potuto attraversare quella fase in relativa sicurezza, e una vasta platea di precarietà sociale che oggi rischiamo si allarghi ancora con l’imminente sblocco dei licenziamenti e degli sfratti.
Se è vero, come evidenziano diverse analisi sociologiche, che la fase della pandemia ha accentuato le già rilevanti diseguaglianze sociali, è arrivato il momento di uno sforzo congiunto fra le forze della politica e quelle della società civile «perché di nuovo portino frutto la competenza, l’intraprendenza, il coraggio della gente che ama il lavoro», secondo le parole dell’Arcivescovo, e dell’avvio di una fase di rinascita che sia anche una fase di costruzione di una società più giusta.
Come Acli siamo preoccupati per l’immediato futuro: se gli investimenti del Pnrr serviranno ai nuovi lavoratori per un progetto professionalizzante che li renda capaci di competere in un mondo globalizzato, occorrerà farsi carico del rischio di chi vedrà in pericolo il proprio lavoro. Da questo punto di vista Milano è chiamata una volta di più a essere esempio per tutto il Paese: lo potrà essere solo avviando un processo di rilancio, che sia al contempo solidale e organico, un ripensamento di se stessa come comunità.
Se un insegnamento ci lascia questa pandemia è la consapevolezza che non ci si salva da soli: non è possibile pensare a una ripresa che valga solo per qualcuno. Occorrono politiche, investimenti, riforme immediate che consentano a chi perde il lavoro di poterlo ritrovare e che accompagnino efficacemente le persone e le famiglie, proteggendole dal rischio di cadere in una spirale di povertà, nella consapevolezza- come ci insegna papa Francesco – che il lavoro è parte determinate della dignità della persona.