Anteprima. Io e Angela abbiamo conosciuto don Giovanni Giudici quando noi avevamo 16 anni e lui 33, all’Eremo San Salvatore di Erba, in occasione di un ritiro spirituale, prima di incontrarlo frequentemente al Centro diocesano di Azione cattolica e durante le vacanze alla Benedicta a Santa Caterina Valfurva. Anche quando ci siamo sposati non gli abbiamo mai dato del “tu”; per noi era un segno di rispetto e riverenza, pure in un rapporto di intensa amicizia e forte intimità spirituale.
Un “buon partito”
Quando ci siamo trasferiti nel Varesotto, dopo il matrimonio, abbiamo scoperto tante cose sul giovane Giovanni. Nei primi anni Ottanta si tramandava ancora la voce che le ragazze della “Varese bene” avessero versato più di una lacrima alla notizia che il figlio del primario di ginecologia dell’Ospedale di Circolo e sindaco di Marchirolo avesse deciso di entrare in Seminario per farsi prete. Dopotutto, non era soltanto un bel fioeu, ma era anche un buon partito. La parrocchia di Bosto, in occasione della prima Messa, fece un opuscolo, che ancora conservo, in cui don Giovanni aveva i capelli e come padrino della prima Messa aveva avuto nientemeno che il professor Giuseppe Lazzati.
Don Giovanni secondo la misura evangelica è stato un «pastore bello» (mia moglie lo ha sempre sostenuto anche secondo i canoni estetici), un cristiano che aveva un’intensa vita di preghiera, con una straordinaria passione educativa, coltivata con il massimo rispetto della libertà di coscienza per ciascun individuo che incontrava nel suo ministero sacerdotale. Valorizzava le giovani e i giovani a lui affidati (di ciascuno si chiedeva: «che cosa potremmo chiedergli di fare nella Chiesa e nell’associazione?»). Ultimamente, poi, con un po’ di orgoglio e di legittima contentezza, lasciava trasparire la sua soddisfazione nel constatare che molti di essi avevano fatto strada nel mondo delle professioni, della docenza universitaria, nella vita politica e in campo ecclesiale.
Non puntava alla “carriera”
Era attraversato da un autentico animo conciliare, ma non era uno spirito ribelle, coltivava ed educava a uno stile di obbedienza sincera (talora sofferta) nei confronti dell’autorità della Chiesa. Visse l’esperienza di presidente di Pax Christi italiana come una sorta di liberazione: «Finalmente posso dire tutto ciò che penso in piena libertà, tanto i miei confratelli mi hanno messo lì per fare quello… e mi sopportano».
Era alieno da ogni aspirazione carrieristica, svolse tutti i compiti che la gerarchia gli affidò, anche se noi pensavamo e continuiamo a pensare che non sempre sia stato ricompensato a dovere negli incarichi ricevuti, conoscendo le sue doti di governo e le sue qualità intellettuali, pastorali e spirituali. Quando gli fu annunciata la sua elezione a Vescovo (oltre a dimenticare il portafoglio a casa per l’emozione e presentarsi al casello autostradale senza carte di credito…), non fu affatto compiaciuto e soddisfatto per la designazione, piuttosto fu preso da un senso di timore e di preoccupazione per la responsabilità e la missione che gli venivano affidate.
Un uomo vero
Era un uomo vero, capace di grandi amicizie, di slanci di tenerezza e generoso nei confronti di quanti erano in difficoltà. Si sforzava nell’arte dell’ascolto, anche quando si imbatteva in persone con sensibilità e attitudini diverse dalla sua formazione. Coltivava rapporti intensi con i confratelli e con diverse famiglie, con cui stabiliva un legame forte, ma mai prevaricante. Dava consigli quando gli venivano richiesti, ma aveva un sacrosanto rispetto della libertà altrui, pur non temendo di esprimere delicatamente il suo dissenso o il suo diverso punto di vista.
Tra le personalità della Chiesa che più ha amato e stimato – esclusi i viventi – sono da annotare Paolo VI, il professor Lazzati, Maria Dutto e, naturalmente, il cardinale Carlo Maria Martini.
Per concludere, come già scrissi qualche anno fa in morte del cardinale Martini, il nostro “corpo a corpo” con i santi in cielo continua. Non mancheremo di aggiornare don Giovanni sui nostri fallimenti e sulle nostre speranze, sulle nostre manchevolezze e sui nostri sogni per una Chiesa più sciolta e coraggiosa, nonché per un’umanità che fatica a essere redenta.
Scriveva l’arcivescovo Martini per la festività di Ognissanti del 1999: «I santi del cielo sono più vicini a noi di quanto ci sono vicini sulla terra coloro che amiamo; essi ci conoscono più profondamente e ci amano più fortemente di quanto non ci abbiano conosciuto e amato sulla terra. I santi sono molto più presenti a noi, molto più capaci di operare e di intercedere per noi, di quanto lo erano sulla terra; sono perciò davvero i nostri grandi amici, sempre pronti a conversare con noi».