«Quale futuro vogliamo disegnare? Si dice che il cambiamento, come dice questa città dell’innovazione, è inevitabile, ingovernabile e necessario perché il sistema non regge, il disagio è insopportabile, i danni provocati da questa economia e da questo modo di lavorare sono intollerabili. Io dirò solo dell’alleanza. Io dirò dell’alleanza che stabilisce un rapporto di fiducia con Dio e tra i suoi figli e le sue figlie, che convince a camminare insieme, a pensare insieme, ad affrontare insieme le sfide, a convocare con determinazione le competenze e le responsabilità politiche, economiche, scientifiche».
È un invito all’alleanza e alla responsabilità che ne deriva, quello che l’Arcivescovo ha indicato ai partecipanti alla Veglia per il Lavoro 2023. Svoltasi presso l’Auditorium di Cascina Triulza, nella sorgente area Mind (ex Expo), uno dei più potenti snodi anche simbolici del cambiamento metropolitano in atto, la celebrazione ha avuto come titolo «Giovani e lavoro. Protagonisti del cambiamento», vedendo la fattiva e proficua collaborazione nell’organizzazione dell’evento del Servizio per la Pastorale sociale e il Lavoro e della Pastorale giovanile, con la partecipazione delle Acli milanesi. Accolti da Massimo Minelli, presidente di Fondazione Triulza e di Confcooperative Lombardia, che ha ricordato come Cascina Triulza sia stato «il primo padiglione della società civile» nel contesto di Expo 2015, la Veglia si è aperta con i saluti introduttivi dei responsabili dei due Servizi diocesani don Nazario Costante e don Marco Fusi.
I saluti istituzionali
«Il desiderio che ci accompagna – ha spiegato Costante – è di avviare processi per riscoprire il senso del lavoro. Come dice papa Francesco, il lavoro “unge” l’uomo, perché dà dignità, libertà, occasione di crescita della persona e questo è vero soprattutto partendo da giovani che siano protagonisti del cambiamento e di un cammino, non solo i destinatari di un lavoro. Insieme all’Arcivescovo vorremmo chiedere sempre più tutele, desiderando costruire un’economia di pace con al centro l’etica del bene che si prende cura della persona, nella consapevolezza che il lavoro è necessario per questa cura». Parole cui si è unito don Fusi, sottolineando la bellezza «dell’atteggiamento di dialogo» realizzatosi nella Veglia «con un insegnamento reciproco tra giovani e adulti». Infatti, a prendere la parola subito dopo, per raccontarsi brevemente e porre alcune domande, sono stati proprio dei giovani.
Le domande dei giovani
Come Marta e Alessandro, all’ultimo anno di liceo, che hanno vissuto un’esperienza al “Social Innovation Campus” di Fondazione Triulza e che pongono l’interrogativo su come promuovere «un’idea di responsabilità sociale e sensibilizzare su questo tema i giovani che si affacciano al mondo del lavoro». O come Sonia, 23 anni, educatrice professionale e aspirante pedagogista, che lavora in una comunità residenziale per ragazze adolescenti, allontanate dalla propria famiglia, che chiede «quali prospettive si prefigurano per il lavoro sociale, in particolare educativo».
E, ancora, come Camilla Polo, anch’essa 23enne, che frequenta l’ultimo anno di Giurisprudenza, vicina alle Acli che, nel suo accorato intervento, dà voce allo scontento «per un sistema malato» e all’insicurezza per un domani reso incerto dalle tutele spesso mancanti e da salari che non permettono di progettare il futuro. Che fare, dunque per un vero cambiamento considerato che «i recenti dati Eurostat individuano a rischio povertà un giovane under 30 su 4?».
Infine, Giovanni Sisto, che porta la sua esperienza di giovane lavoratore, ma anche quella di un gruppo di amici, domandandosi come «testimoniare Gesù in modo più chiaro ed evidente ai colleghi e voler bene agli altri», in un mondo occupazionale dove prevalgono competizione e ansia da prestazione.
Su queste basi inizia, così, la riflessione dei due relatori, Ivana Pais (docente di Sociologia Economica presso l’Università Cattolica) e il gesuita padre Giuseppe Riggio, direttore di Aggiornamenti Sociali, moderata dal presidente delle Acli milanesi Andrea Villa.
Le prospettive
Dalla «frattura che vi è stata nel mondo del lavoro con la pandemia, il lockdown e il successivo fenomeno della forte quantità di dimissioni dai posti di lavoro, soprattutto da parte dei giovani, messi perciò sotto accusa», prende spunto Pais che osserva: «I pochi dati di ricerca raccontano, però, una storia diversa: gran parte dei giovani ha lasciato, non perché ha disinvestito, ma perché ha cercato un senso anche nell’occupazione e il momento di pausa ha portato a decidere di fare un passo in un percorso diverso. Per qualcuno questo ha significato fare fatica a riprendere; per altri, fermarsi ha voluto dire pensare e avviare qualche cosa di diverso. Se le generazioni precedenti hanno avuto manifestazioni di voci, proteste di piazza, ora si vuole creare l’alternativa e vedere come le generazioni facciano “a modo loro”, con la creazione di nuove imprese innovative, di strat up, è molto interessante. Non sono mai da soli, oggi la forma individuale nel fare impresa non esiste più, si mettono insieme con competenze diverse. Il passo per superare la fatica dell’incertezza è una soluzione collettiva non tanto per protestare, ma per fare».
Chiaro il rischio, per Pais, pur nella considerazione positiva di un simile trend: «Quello di creare degli spazi nei quali i giovani stanno solo tra loro, mentre gli adulti si muovono in sfere separate, per cui diventa difficile ritrovarsi. Un aspetto che stupisce, per esempio, analizzando le piattaforme di supporto psicologico che stanno crescendo molto, è che gli utenti chiedono di poter avere psicologi giovani, perché sono convinti che solo un giovane ne possa capire un altro. E questo dice tanto sul rapporto intergenerazionale».
«Certamente vi è il rischio del concentrarsi troppo sulla propria realizzazione», riconosce anche padre Riggio che parla di «utopia come di un diritto a un lavoro che sia compimento della propria vita». «Ma noi – aggiunge – abbiamo ancora bisogno di tutto questo perché il lavoro non sia soltanto una prestazione con una retribuzione giusta, ma un luogo per offrire un contributo alla società e alla crescita personale». Il richiamo è a papa Francesco che, nel 2021, in un discorso tenuto in occasione dell’assemblea dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sottolineò la centralità della dimensione della cura in ogni tipo di rapporto lavorativo: «Non soltanto il lavoro è cura, ma bisogna prendersi cura del lavoro come chiave di senso dell’organizzazione del lavoro. Come, per esempio, chiedersi quale è il posto di chi è più debole, le possibilità offerte alle donne o in quale modo ci si prenda cura del creato. Questa dimensione può generare un cambio di passo. Così si può vivere la testimonianza anche della nostra fede nel mondo del lavoro, sottraendosi a un ritmo che non conosce più tempo di sosta. Riscoprire il tempo del riposo, riuscire a vivere lo sguardo contemplativo nella quotidianità del lavoro significa, anche nelle situazioni di stress, coltivare la speranza, vedendo il bello, la dimensione anche di festa del lavoro, nei rapporti umani, con gli altri e con se stessi», la conclusione del direttore di Aggiornamenti Sociali”
Poi, dopo la proclamazione del Vangelo di Giovanni al capitolo 4, l’intervento dell’Arcivescovo che, contro il malessere di oggi, invoca la fiducia e la stima reciproca.
L’intervento dell’Arcivescovo
«Da dove viene quell’istinto a sfogare la rabbia fino a far del male a se stessi e fino a far del male alle persone vicine e fino a rovinare l’ambiente, le cose, i muri del nostro vivere quotidiano? Io dirò della voce che chiama, dell’amicizia affidabile che accompagna, della promessa che alimenta la speranza invincibile. La voce che chiama e, chiamando, dice la stima, la fiducia, l’invito al coraggio, all’audacia e chiama alla responsabilità».
«Io dirò della voce chiama e, chiamando, rivela che la vita è promettente, che è desiderabile vivere, vivere bene. La vita è promettente non perché sia facile, ma perché può essere vissuta per amore; non perché corrisponda alle aspettative, ma perché ogni situazione può essere interpretata come occasione propizia per amare. Io dirò della voce che chiama e, chiamando, insinua un principio critico per non accontentarsi, per non rassegnarsi, per contestare l’ingiustizia, per reagire a quanto offende la dignità propria e degli altri. Un principio critico per non lasciarsi sedurre ingenuamente dal fascino di una tecnologia senz’anima e senza etica, per non adeguarsi senza pensiero, per non censurare mai la domanda sul perché delle cose e delle scelte, troppo assorbiti dalla domanda sul come e sul rapporto investimento/profitto».
Da qui l’interrogativo su quale futuro vogliamo costruire: «Si dice che il cambiamento è necessario perché il sistema non regge, il disagio è insopportabile, i danni provocati da questa economia e da questo modo di lavorare sono intollerabili. Io dirò dell’alleanza che pretende la stima reciproca, l’ascolto delle ragioni degli altri, la franchezza nel dire le proprie ragioni. Io dirò dell’alleanza che esige di condividere risorse e possibilità, nella persuasione che il bene comune è più desiderabile e promettente dei vantaggi individuali. In questa Veglia siamo convocati per pregare e per ascoltare una parola che venga da Dio, la parola che chiama, la parola che convoca per l’alleanza».
La visita alla Scuola di Restauro di Valore Italia
Poco prima di presiedere la Veglia, l’Arcivescovo si è recato negli ampi spazi della Scuola di Restauro fondata a Botticino (Bs) nel 1974, ma attiva a Milano in area Mind dal 5 ottobre scorso, in un totale di 4000 metri quadri.
Accolto da Salvatore Amura, amministratore delegato di Valore Italia, Centro Internazionale di Formazione e Ricerca di cui la Fondazione Enaip Lombardia – agenzia formativa delle Acli – è promotore e fondatore, l’Arcivescovo, accompagnato dai giovani, ha visitato alcuni dei 7 laboratori esistenti. 500 i ragazzi impegnati nella Scuola, di cui la metà in Mind e il resto in via Cosenza nel contesto dell’Università Bicocca.
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