La strada fatta insieme – tanta – e la divisone che, tuttavia, continua a esistere; la gioia di «una fraternità semplice e condivisa» e le difficoltà della comprensione reciproca; la pace e «le arti del diavolo che vuole ostacolare il nostro cammino verso la comunione».
Insieme per la pace
La storia del cammino ecumenico, si sa, è fatto di luci e di ombre, ma nella Basilica di Sant’Ambrogio – che prende il nome dal patrono e padre della Chiesa indivisa e che, quest’anno, è chiesa giubilare – si è vista solo la bellezza di una Veglia di preghiera cristiana vissuta con la consapevolezza delle comuni radici e della responsabilità di operare insieme per la pace, oggi, nel segno del Concilio di Nicea celebratosi 1700 anni fa. È stato questo il senso della celebrazione ecumenica, presieduta dall’Arcivescovo, dalla pastora evangelica valdese Daniela Di Carlo e dall’archimandrita padre Ambrogio Makar della Chiesa ortodossa russa del Patriarcato di Mosca, svoltasi nel contesto della Settimana per l’Unità dei Cristiani, con il titolo che guida l’intero Ottavario 2025, «Credi tu questo?».
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Presenti molti fedeli delle diverse Confessioni impegnate nell’ecumenismo, i rappresentanti del Consiglio delle Chiese cristiane, con il presidente di turno padre Traian Valdman, vicario eparchiale emerito della Chiesa ortodossa romena, il vicario episcopale e presidente della Commissione per l’Ecumenismo e il Dialogo monsignor Luca Bressan, il responsabile dell’omonimo Servizio diocesano Roberto Pagani, e il vescovo Mounir Khairallah, di Batrun dei Maroniti, la Veglia si è aperta con il gesto significativo di portare sull’altare una copia del Credo niceno-costantinopolitano, il cui testo formulato a Nicea nel 325 utilizzava la prima persona al plurale Noi crediamo, a sottolineare l’appartenenza comune dei cristiani.
Dopo il saluto di monsignor Carlo Faccendini, Abate della Basilica, il triplice richiamo al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo si è articolato nell’ascolto della parola di Dio, ma anche di brani tratti dagli scritti di Sant’Ambrogio e San Massimo il Confessore, canti, intercessioni. Fino a quella intensissima, in cui sono risuonati i nomi dei Paesi travagliati dalla violenza: dal Medio Oriente al Sudamerica, dall’Africa ad Haiti.
Al cuore della celebrazione, la riflessione dell’Arcivescovo ha avuto il sapore di un richiamo alle comuni radici contro le divisioni generate dal sospetto.
Il sospetto
«Il diavolo, colui che vuole respingere il Regno di Dio e rinnegare la divinità di Gesù, si aggira tra noi per continuare la sua opera di divisione, di confusione, di sospetto. Il principio del sospetto induce a pensare che Dio ci lasci vagare lontano dalle sue vie, che sia insensibile alla sorte del suo popolo. Colui che semina il sospetto convince che di Dio non ci si può fidare e che perciò è meglio cercare di provvedere da soli, convincendosi che la propria strada è meglio di quella degli altri. Così il desiderio di Dio di riunire i suoi figli non si è finora compiuto».
Il pensiero va al Figlio, di cui l’eresia ariana, definitivamente condannata dal Concilio di Nicea, negava la natura divina: «Il desiderio di Gesù di fare dei molti un cuore solo e un’anima sola si è compiuto solo nel morire in croce e attende di compiersi poiché nel nostro vivere siamo troppo incapaci di quell’abbassarsi che potrebbe riconciliarci».
La missione impossibile dello Spirito
«Il diavolo – ha proseguito l’Arcivescovo richiamando lo Spirito santo – ha seminato un inguaribile scetticismo che ritiene impossibile l’opera della Spirito e che vive le differenze come incomunicabilità, come competizione, come minaccia. Per custodire la mia identità, suggerisce lo spirito di divisione, devo contrappormi, devo entrare in polemica, dare enfasi alla mia originalità. Così la missione dello Spirito di essere Spirito di comunione, per fare dei molti una cosa sola, si compie in quella dimensione misteriosa che è nel segreto delle coscienze, che è nelle ispirazioni dei santi, nel gemito delle Chiese, ma non è ancora il cantico corale e l’abbraccio universale». Seppure Massimo il Confessore (580-662), in un brano letto durante la Veglia, affermasse che «la Chiesa in virtù della fede dona un’unica condizione, semplice, indivisa e indivisibile che non permette neppure di riconoscere le molte e innumerevoli differenze che vi sono tra ciascuno, perché essa raccoglie e riconcilia ogni cosa nella sua universalità».
Da qui la conclusione dell’Arcivescovo: «Lo spirito maligno contrasta l’opera della Trinità, ma noi siamo, questa sera, in questa settimana, in ogni settimana, in questo anno e in ogni anno della nostra vita, radunati per professare ancora la nostra fede, la fede di Nicea. Noi crediamo, professiamo e ci convinciamo che Dio continua a operare, che il Figlio di Dio continua ad attirare tutti a sé. Noi professando la fede nel Figlio consustanziale al Padre [come ribadito a Nicea], ci mettiamo in cammino, pur riconoscendoci imperfetti e peccatori. Umilmente, fedelmente, tenacemente siamo convinti che l’unica via da percorrere per essere salvati, per essere uniti, è la via di Gesù».