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Milano

Una spiritualità libera, anche in carcere

Il reading «La prima libertà», portato in scena da alcuni detenuti al Museo diocesano, ha suggellato il progetto triennale che ha coinvolto diverse istituzioni nel riconoscimento e nella promozione del pluralismo religioso negli istituti di pena lombardi

di Annamaria BRACCINI

22 Gennaio 2020

«Un punto di rottura, ecco dove sono. Una transizione tra ciò che ero e ciò che diventerò. Il viaggio dentro di noi è infinito, primordiale». «Abbiamo ora l’estremo bisogno di ricominciare, di trovare una nuova identità, a costo di altre sofferenze. Affiorano i giudizi e i pregiudizi, la paura del dopo, di quello che accadrà, come se entrassimo in una galleria buia, senza sapere cosa ci attenderà all’uscita. Dobbiamo rischiare, ed ecco, affiora un cambiamento culturale».

Solo due delle riflessioni di alcuni detenuti, nate da un progetto triennale che si conclude per ripartire con altrettanto impegno e slancio, nella consapevolezza dell’importanza che riveste oggi, sempre più, la conoscenza reciproca anche a livello religioso. Specie se non ci si può scegliere il vicino di stanza. Così come accade ai carcerati – una ventina -, protagonisti assoluti del reading “La prima libertà. Vivere la religione in carcere” che, al Museo diocesano “Carlo Maria Martini”, ha concluso i tre anni del progetto “Simurgh”, cofinanziato dalla Fondazione Cariplo e promosso dall’Università degli Studi di Milano, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Provveditorato regionale della Lombardia, dalla Comunità Ebraica di Milano, dalla Comunità Religiosa Islamica Italiana (Coreis) di Milano, dalla Caritas Ambrosiana, dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana e dall’Istituto di Studi di Buddismo Tibetano di Milano “Ghe Pel Ling”.

Tante forze coalizzatesi per dare voce, attraverso laboratori formativi, alla necessità di libertà religiosa e di conoscenza delle fedi, con un percorso che ha coinvolto 200 detenuti e 259 operatori carcerari istituzionali e non, con 27 incontri rivolti ai reclusi e altrettanti al personale, in nove carceri lombarde. Pavia, Brescia, Milano San Vittore (2017), Vigevano, Como, Cremona (2018), Monza, Bergamo e Opera (2019). I detenuti, appartenenti a diverse confessioni religiose, sono stati così chiamati a elaborare testi, secondo la loro spiritualità, a partire dall’antico poema persiano “Simurgh, la conferenza degli uccelli”, che ha dato il titolo all’intera iniziativa.  

«Il cardinale Martini diceva che “per capire il bello è necessario vedere il dolore capace di condividere l’amore”. È, quindi, molto significativo essere al Museo a lui intitolato – nota il vicario episcopale, monsignor Luca Bressan, nel suo intervento di apertura -. Abbiamo voluto iniziare con una foto di gruppo, perché le fedi – secondo il significato etimologico latino del termine – sono istituzioni che rispondono a un patto, creando legami. Sono tre i motivi che ci permettono di riconoscerci: il percorso ci ha insegnato a essere un solo popolo e una famiglia; la gratitudine e l’aver generato così tanto frutto per cui vale la pena continuare».

Nadia Righi, direttrice del Museo, aggiunge: «Stiamo riflettendo con una mostra di Margherita Lazzati (“Fotografie in carcere. Manifestazioni della libertà religiosa) in cui si illustra il tema con raffinatezza e delicatezza. Tante scuole sono venute a visitare la rassegna e questa è una bella occasione per sentirci tutti sulla stessa strada». «Grazie a un progetto come questo si può riconquistare una libertà spirituale interrogandosi sul senso della vita, esercitando o riscoprendo la propria religione», osserva Marilisa D’Amico, docente di Diritto Costituzionale e prorettore della Statale, che richiama l’articolo 19 della Costituzione, a garanzia della libertà religiosa e di culto, e ricorda l’istituzione a San Vittore della “Scuola delle religioni” che ha già compiuto il primo anno di attività.

Poi il reading, mentre si alternano suggestivi intermezzi musicali e le immagini, in bianco e nero, delle fotografie di Lazzati. Secche, ritmate, le frasi: «Fatichiamo a volare perché abbiamo perso la strada. Abbiamo trovato un sacco di scuse pe non guardarci nel cuore e negli occhi, ma ora possiamo cambiare il nostro destino». E, ancora: «Iniziamo stando uniti. Nonostante tutte le nostre differenze, procediamo insieme. Partiamo da una stretta di mano. L’unione, il rispetto, la fatica sono presupposti fondamentali per questo viaggio». 

Giovanna Longo, responsabile dell’Ufficio detenuti del Provveditorato regionale Amministrazione Penitenziaria della Lombardia, definisce il significato dell’itinerario realizzato su tre linee di intervento. «La prima rivolta al personale coinvolto nella sperimentazione – compresi educatori, mediatori linguistici, Cappellani -, con uno sguardo antropologico, sociologico-giuridico ed etico- formativo. Percorso che è stato accompagnato da docenti universitari ed esperti. Inoltre, la selezione di un gruppo di detenuti di più religioni e, infine, la valorizzazione dei laboratori, soprattutto espressivo-culturali, con l’intento di promuovere una nuova cittadinanza e la coesione sociale».

Parole cui fa eco Daniela Milani, coordinatrice del progetto, nelle conclusioni. «Oggi quasi la metà dei detenuti nei penitenziari italiani professa fedi diverse. Questo è un momento di snodo, ma dobbiamo chiederci cosa fare domani. Occorre rifiutare la diversità con la quale facciamo quotidianamente i conti, non solo in carcere, e accettare che sia un valore».

Hamid Roberto Di Stefano, della Comunità Religiosa Islamica Italiana, sottolinea il ruolo del dialogo interreligioso, «che ci vede, a Milano, molto impegnati. Tuttavia, sulle carceri non avevamo fatto niente. Quando ci siamo resi conto che “dentro” non è un mondo a parte, siamo riusciti in qualcosa che ha smosso, anzitutto, le nostre coscienze e ha avuto anche ricadute istituzionali».

Infine, la performance musicale – applauditissima dal folto pubblico – realizzata da 16 reclusi del Laboratorio musicale del penitenziato di Monza, curato da Max Ruggeri e Sebastiano Longoni. Tubi, pentole, barattoli di vernice usati come percussioni in un crescendo travolgente, dal titolo “I ritmi dal mondo”.

 

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