Alla vigilia dell’ordinazione dei 22 nuovi sacerdoti della diocesi ambrosiana, pubblichiamo l’editoriale di don Fabio Landi nel n. 6 (giugno 2022) del mensile Il Segno, che ha dedicato la copertina a una lunga intervista con gli stessi al termine dei loro sei anni di formazione. L’intervista è diventata anche un video che si può guardare a questo link.
L’incontro con i futuri preti della nostra diocesi, di cui Elena Parasiliti racconta in queste pagine, ne ha fatto emergere il tratto più umano, quello legato alle esperienze di ciascuno, all’età e all’indole, alla famiglia e agli affetti attraverso i quali la vocazione è maturata. Prepararsi al ministero non cancella neppure qualche impazienza nell’andare incontro al futuro, con quel misto di slancio e di timore che caratterizza i passaggi importanti della vita.
L’associazione del sacerdote alla sfera del sacro per molto tempo ha condizionato l’immaginario cattolico relegando il prete in un mondo a parte, immune alla complessità delle traversie interiori ed esteriori con cui tutti cerchiamo di fare i conti. L’ideale evangelico della santità, però, non prevede una separazione che salvaguardi un gruppetto di puri, ma si concretizza in un servizio alla comunione che, al contrario, passa sempre attraverso la carne e il sangue. E senza ignorarne le ferite e le fragilità.
Ne deriva una figura di prete meno stilizzata, con cui talvolta è più faticoso o più deludente avere a che fare, ma complessivamente più autentica e senz’altro più idonea a testimoniare un Vangelo non astratto, che tocchi la vita reale delle persone.
Perché questo avvenga, tuttavia, non è sufficiente riguadagnare i preti al versante dei comuni mortali. Occorre contemporaneamente che il ministero stesso si trasformi, cercando proprio nell’esperienza umana condivisa la forza salvifica dell’annuncio e la sua validità per tutti. Altrimenti il riferimento alla carne e al sangue del sacerdote diventano solo l’invito a tollerare, con un po’ di misericordia, i suoi difetti.
Invece, se il prete coltiva la sintonia del proprio cuore con l’esistenza mondana dei fratelli e con il mistero che racchiude, si produce qualcosa di nuovo, liberando l’uno e gli altri dalle parole un po’ artificiose che spesso caratterizzano il discorso religioso. E il regno di Dio cresce sotto i nostri occhi.
Come scrisse con sorprendente anticipo, nel 1966, p. F. Roustang (Il terzo uomo, 2021), «il cristianesimo non è solo una pratica religiosa e morale, ma la possibilità di una comunicazione tra tutti gli uomini, la possibilità di superamento delle dispute settarie, di una progressiva comprensione tra persone apparentemente estranee tra loro». Sono parole che oggi non possono non colpire anche in riferimento allo scenario internazionale (Roberto Pagani ne scrive in un lungo articolo nelle pagine seguenti). Ma forse la loro portata è ancor più dirompente in relazione alla nostra prassi pastorale.
È incoraggiante che i giovani diaconi, interrogati sugli aspetti del ministero verso i quali nutrono più attese, abbiano parlato dell’ascolto delle persone, della condivisione del loro vissuto, quasi di un “sacramento dell’ascolto”.