In tutti gli italiani, più o meno credenti, alberga la scansione secondo cui il cristianesimo ha ritmato le stagioni: la primavera porta la Pasqua, l’inverno il Natale. Nell’ultimo anno la preparazione di questi eventi è stata segnata, sfigurata direi, dal divampare dell’epidemia. Eppure, deludendo fideismi, scaramanzie, ma anche umane speranze – ognuno avrà avuto la sua – né la Pasqua, né, a quanto pare, il Natale riescono a porre fine all’epidemia. Sono piuttosto questi eventi – non solo nel sentire dei credenti, ma anche nel vivere civile e domestico – ad apparire trasfigurati dall’incedere inesorabile dell’emergenza sanitaria.
La percezione è generale, al punto che non sono i vescovi, ma gli intellettuali e i politici a offrire suggerimenti per vivere in modo diverso le prossime festività. Di consigli ne abbiamo ricevuti, tanti e da più parti. Chi li dà non è di certo mosso da cattive intenzioni. Eppure, soprattutto in questa seconda ondata, sembrano non riuscire a scalfire quel senso di impotenza che si sta oscuramente addensando al fondo del cuore. Il «tutto andrà bene» non campeggia più sui balconi, alcuni ragazzi sprofondano nelle loro stanze, impauriti da quel mondo che un domani sarà loro compito ricostruire. Anche l’annuncio del Natale, addomesticato dalle norme sanitarie, risulterà incapace di accedere quella miccia di positività che ogni anno ha portato nei cuori?
Come ha genialmente intuito l’Arcivescovo, l’emergenza sanitaria sta rivelando un’«emergenza spirituale», ben più grave della prima, trasversale a generazioni, culture e religioni, di fronte alla quale ci si trova di primo acchito indifferenti, ma, a essere onesti, del tutto impreparati. A questo tipo di emergenza non si può, infatti, rispondere solo con slogan, consigli e norme, ma con l’umile disponibilità a riconfigurare niente di meno che la concezione della propria vita.
Si tratta di riscoprire una verità che è sempre stata davanti agli occhi degli uomini più acuti: l’uomo non si basta da sé. Lo scriveva in modo efficace Gregorio di Nissa: «Nulla di quanto si ricerca nella vita nell’ambito del piacere raggiunge la pienezza. È come un vaso forato: si versa sempre qualcosa nel fondo del desiderio, senza riuscire a portare il desiderio alla sazietà». Ormai ci si è quasi abituati a credere che questa insaziabilità del desiderio, svelata come non mai dal frangente attuale, sia ascrivibile alla colpa di qualcuno: alla nostra fragilità emotiva, all’inesperienza dei politici, all’inefficacia delle misure economiche, se non ai malefici di qualche oscuro potere. Ma una volta che fossimo pure riusciti a dare il benservito agli errori di ciascuno, siamo sicuri che giungerebbero la pienezza del cuore e il gusto della vita?
L’emergenza esistenziale consiste proprio nel non rendersi conto che questa insaziabilità è costitutiva dell’essere umano e le circostanze attuali con la loro imponderabilità non fanno altro che rendercelo più evidente, invitando al realismo proprio di una concezione religiosa dell’esistenza. Per religiosa intendo la percezione che questa vita non si fa da sé e dipende da altro (o Altro) in ogni momento del suo esistere: questo non è né una colpa, né un merito nostro, è innanzitutto un dato di fatto.
Il recupero di questa dimensione religiosa della vita non è solo compito dei “sacerdoti laici” o delle agenzie psico-spirituali, ma di ogni uomo che sia lealmente in ascolto di sé e degli altri. Scriveva don Giussani che «l’insistenza sulla religiosità è il primo assoluto dovere dell’educatore, cioè dell’amico, di colui che ama e vuole aiutare l’umano nel cammino al suo destino». Il richiamo alla religiosità autentica ci libererebbe da quel vittimismo recriminatorio e assetato di vendetta, ci ridesterebbe dal torpore nichilistico e scettico nei confronti di qualsiasi annuncio, e ci potrebbe finalmente far gustare soprattutto quest’anno il cuore del Natale: Dio che si fa uomo come noi per comunicarci che questa vita, così come è, non sfuggirà mai dalle mani amorevoli del Padre.