Mi chiamo Chiara Monguzzi, ho 37 anni e il 15 aprile un grande Angelo mi ha donato una seconda vita. Non smetterò mai di essere grata per questo immenso dono che ho ricevuto.
Quando ero molto piccola, i medici mi diagnosticarono una malattia autoimmune che, con il tempo, mi ha causato la cirrosi al fegato. Circa due anni e mezzo fa, il mio nome è stato scritto nella famosa lista di attesa, nella speranza di ricevere presto un fegato nuovo. L’attesa è stata lunga e faticosa; fortunatamente, non stavo malissimo: ero, però, sempre stanca, avevo la pelle del viso gialla e un continuo prurito che non mi lasciava mai, né di giorno né di notte. Non potevo viaggiare, andare via nemmeno per un weekend con mio marito, perché la telefonata tanto attesa avrebbe potuto arrivare all’improvviso e avrei dovuto essere pronta per l’operazione. Nonostante tutto,durante questo brutto periodo, non ho mai perso il sorriso e la speranza.
Ero (e sono tuttora) fermamente convinta che il Signore ci dà una croce, ma non ci lascia soli nel portarla. Avevo a fianco a me tantissime persone: mio marito in primis, la mia famiglia e i miei amici.
E poi, finalmente, nel periodo più buio della pandemia del Covid-19, il 14 aprile arriva la telefonata tanto attesa; dall’altra parte del telefono i medici mi dicono che c’è un potenziale organo per me. La corsa al Niguarda di Milano, gli ultimi controlli e, poi, in sala operatoria. Da quando l’ospedale ti chiama, non hai tempo per pensare, organizzare, salutare… Insomma, una corsa contro il tempo.
Il momento più brutto è stato quando, all’arrivo in pronto soccorso, ci è stato detto che avrei dovuto affrontare tutto da sola, perché nessuno era ammesso in ospedale, a causa del virus. In quel momento, piangendo, ho abbracciato Davide, mio marito: non ce l’avrei fatta ad affrontare quella dura battaglia senza di lui al mio fianco, ma noi due siamo persone forti, due rocce, e sapevamo che, insieme, avremmo superato anche questo.
La notte è stata lunga, infinita. Ero sola in camera e in attesa, fino alle 4 del mattino del giorno dopo, quando ho varcato la sala operatoria per una nuova vita. In quelle ore ho pregato la Madonna, mi sono affidata a lei, certa che lei sola mi poteva confortare e dare coraggio in quel momento tanto difficile. Dieci ore di operazione, poco più di un giorno in terapia intensiva e quindici giorni nel reparto di alta intensità chirurgica, ma, appena aperti gli occhi, già mi sentivo benissimo, rinata.
È stato meraviglioso risvegliarsi e sentire dai medici che tutto era andato strabene, che il fegato ricevuto da un Angelo speciale era perfetto per me e funzionava benissimo. Già dal terzo giorno dopo l’intervento, mi sentivo bene, come se non avessi subito un’operazione di quel genere, tanto che ho chiesto al chirurgo se davvero mi avessero operata.
Da lì, è iniziata la mia seconda vita. Il percorso di guarigione per me è stato molto facile: nessun dolore, nessun problema, solo tanta voglia di alzarmi in piedi e correre verso casa, per riabbracciare i miei familiari, gli amici, i parenti e i tantissimi conoscenti che hanno pregato per questa mia rinascita.
A causa del Covid-19 durante la mia degenza, nessun familiare né amico ha potuto venire a trovarmi: potevo vederli e sentirli solo attraverso il telefono.
Devo ringraziare di cuore il personale ospedaliero che mi è stato vicino durante il mio “soggiorno”. Le infermerie, soprattutto, si sono prese cura di me, mi hanno coccolata, viziata e mi hanno fatto un po’ da seconda famiglia. Penso che l’attenzione verso gli ammalati che hanno dimostrato sia qualcosa di veramente ammirabile, un’altra cosa per cui essere grati a questi eroi che ogni giorno, svolgono il loro lavoro con il cuore.
Sono la responsabile del gruppo Unitalsi nella mia parrocchia di Biassono e per anni ho assistito gli ammalati durante i pellegrinaggi a Lourdes e nelle vacanze con i disabili a Borghetto S. Spirito. Queste esperienze mi hanno insegnato ad accostarmi con umiltà e rispetto alle persone a me affidate, ma è facile da volontario: la sera, poi, ce ne torniamo a casa e dimentichiamo la malattia degli altri. Ho sperimentato direttamente sulla mia pelle cosa vuol dire essere malati, aver bisogno di tutto e tutti quando non ci si può alzare dal letto. E in quei momenti ho pensato ai nostri cari ammalati, a quanto infinita è la loro pazienza, ma, soprattutto, a quanto è difficile doversi affidare totalmente agli altri.
E mi sono tornate alla mente le parole di un mio caro maestro unitalsiano che, in occasione del mio primo pellegrinaggio a Lourdes, mi spiegò che non è sufficiente prendere una carrozzina e spingerla. Lui mi disse che la prima cosa da fare era presentarmi alla persona affidatami e dire: «Eccomi, ora io sono qui per te». Moltissime infermiere si approcciavano a me in questa maniera e io mi sentivo curata e amata.
Quest’avventura è stata per me una vera e propria rinascita, in ogni senso. Ora la mia vita ricomincia; ora posso avere una seconda possibilità, una nuova vita, grazie al mio Angelo: sono e sarò sempre infinitamente grata a lui e alla sua famiglia che, in un momento di estremo dolore, ha fatto una scelta di grande altruismo. Nel momento del buio più totale, il loro «sì» alla donazione mi ha permesso di rivivere. Purtroppo, è impossibile rintracciare queste persone, ma il mio desiderio più grande è di poterli abbracciare e semplicemente dire loro: «Grazie».
Un ringraziamento doveroso va anche al mio maritino che mi è stato vicino nel momento più buio, con tanta pazienza e infinita tenerezza. Insieme, in questi anni, abbiamo imparato che il matrimonio non è aspettare che passi la tempesta, ma ballare sotto la pioggia.
Tutto questo è stato per me un piccolo grande miracolo, un immenso dono che la Madonna mi ha fatto. Fin da piccola, la mamma mi ha insegnato che in ogni momento, buio o triste, avrei dovuto affidarmi a Lei, alla nostra mamma celeste e… così per me è stato.
Il mio primo viaggio sarà al Santuario di Lourdes, non appena sarà possibile recarsi là in pellegrinaggio con l’Unitalsi, per poter ringraziare la Madonna.
C’è una frase di Madre Teresa che mi piace tanto: «Le cicatrici sono il segno che è stata dura. Il sorriso è il segno che ce l’hai fatta». Quel sorriso che mi ha sempre accompagnato, da quel 15 aprile resterà sempre con me, non mi abbandonerà mai nel corso della mia nuova vita, fino all’arcobaleno e oltre.