«In questa Chiesa, che alcuni dicono è la più bella del mondo, oggi celebriamo la festa più importante dell’anno liturgico che dà origine a tutte le feste, come per dire: “Se Cristo non fosse risorto chi potrebbe mai fare festa?”. Questo ci chiama a essere persone più disponibili ad accogliere la grazia del Signore. Cantiamo perciò il nostro gloria, il nostro alleluia, la gioia di essere vicini a Gesù».
Nella mattina di sole che inonda un Duomo maestoso e magnifico, si celebra “il vero giorno di Dio, radioso di santa luce”, come recita l’Inno del patrono Ambrogio. È la Pasqua di Risurrezione del Signore e, tra le navate della Cattedrale, l’Arcivescovo presiede il Pontificale solenne, concelebrato dai Canonici del Capitolo metropolitano. I Dodici Kyrie della Liturgia ambrosiana, i gesti liturgici, le tre Letture tratte dal Nuovo Testamento – attraverso pagine degli Atti degli Apostoli, della I Epistola ai Corinzi e del Vangelo di Giovanni – definiscono il senso di un partecipare a quel nuovo inizio, più volte sottolineato dall’Arcivescovo in queste ore, del quale mai, forse, come oggi abbiamo bisogno.
E, così, il vescovo Mario intitola la sua omelia «Perché piangi, povera umanità infelice?».
L’omelia
Parafrasando l’espressione di Maria di Magdala al sepolcro – “Hanno portato via il mio Signore”, l’unico e vero tesoro – l’Arcivescovo indica i tanti falsi idoli, considerati tesori, che tradiscono l’umanità profonda di ognuno di noi alle prese con i soldi, la giovinezza che se ne è andata, la bellezza che non c’è più, la malattia e la disillusione.
«Hanno portato via i miei soldi, accumulati in una vita, con avidità insaziabile, con ogni traffico e infaticabile lavoro, con astuzia e spregiudicati azzardi. Non ti sembra che abbia buone ragioni per piangere?». E, allo stesso modo, il pianto è per la giovinezza svanita, «gli anni del vigore, dell’avventura e della sconsiderata temerarietà che si compiaceva della trasgressione, quando non ti fa paura niente, quando non è mai tardi, quando non è mai troppo». È il tempo che fugge e si porta via anche i tratti attraenti della più bella della compagnia. «Povera vanitosa, la tua bellezza è perduta per sempre. I trucchi e gli artifici non nascondono niente e ti rendono patetica».
E poi, c’è chi piange sulla salute perduta, «stremato per niente, tormentato dai dolori, limitato nei movimenti, con la mente confusa e la memoria perduta. Un peso per quelli di casa, insopportabile a se stesso» e chi soffre, avendo pure buone ragioni per piangere, ma non capendo che «le lacrime non rimediano all’irrimediabile». E nemmeno svegliano i morti dell’inconsolabile umanità che pensa, piangendo, «la mia casa è diventata un deserto. Mi hanno portato via il papà e la mamma e non so dove li hanno messi. Hanno portato via le persone più amate, gli amici più cari».
Un’umanità infelice anche quando guarda all’ingiustizia che ha condannato il Nazareno, facendo prevalere «la cattiveria sulla bontà».
Ma è proprio a «questa povera umanità troppo ripiegata sul suo soffrire», che è chiesto di «alzare il capo, volgere lo sguardo, convertire la mente, riconoscendo la voce che chiama, la presenza che consola».
Come fu, appunto, per Maria di Magdala, a cui dà voce, simbolicamente, il vescovo Mario.
«Ho una parola da dirvi: tutto finisce, tutto si perde, tutto si consuma e si rovina. Non vi salveranno sicurezze e illusioni, non la ricchezza, non la giovinezza, non la bellezza. Non riuscirete a salvare la salute, non gli affetti e le persone amate. Cercate Gesù: in lui tutti hanno vita e niente va perduto, non gli affetti, non le persone care. Chi crede in lui non muore e chiunque crede in lui anche se morto vivrà. Non disperate per nessuno, in lui anche le cose del mondo trovano senso. Il tuo denaro in lui diventa carità, la giovinezza tempo di grazia, la bellezza principio di elevazione, anche la salute diventa condizione propizia per servire. Senza di lui non possiamo fare niente. Fratelli e sorelle, io non piango più: ho una missione».
In conclusione, ancora un pensiero, prima della benedizione papale con l’indulgenza plenaria impartita dall’Arcivescovo, per facoltà ottenuta da papa Francesco. «Vi auguro buona Pasqua con la benedizione del Signore: che possa essere un principio di novità, di conforto e incoraggiamento per voi tutti, per chi incontrerete, per i vostri cari e coloro che abitano i vostri affetti anche se in questi giorni non si possono raggiungere come si vorrebbe».