La Parola di Dio e la cura dei fratelli sono state le luci che hanno illuminato la traccia del sentiero nei giorni bui del lockdown.
Tra le tante parole ne custodisco due con particolare affetto e le condivo in modo quasi confidenziale. La prima è quella del libro della Sapienza che definisce l’uomo come colui «che ha avuto il respiro in prestito» (Sap 15,16). Questa affermazione evidenzia da una parte la precarietà dell’esistenza e dall’altra la grazia. La vita è un dono che ha la forma del prestito. Vale lo stesso per la vocazione e il ministero: non ne sono il padrone ma il custode. L’idea del prestito, da una parte, è pacificante (c’è un Padre che mi ha amato, mi ha donato la vita, mi ha scelto e affidato un ministero), dall’altra, invece, è sanamente inquietante: mi devo sradicare dalla mia autosufficienza presuntuosa per consegnarmi arreso al suo disegno. Questi pensieri si sono amplificati nella solitudine che, come prete, ma come tanti altri, ho vissuto in questo tempo. E intendo la solitudine non come una categoria principalmente psicologica, o tantomeno patologica, ma spirituale e antropologica, alla maniera dello stare solo di Gesù davanti al Padre (non per questo più facile). Una solitudine che spesso soffoco con l’attivismo pastorale, anche onesto e generoso, e che non è colmata da una fraternità sacerdotale ancora embrionale o formale ma incapace di varcare la soglia che porta un po’ più nell’oltre dell’altro. Una solitudine che mi fa paura e che quindi, anche quando nel lockdown non si poteva fare nulla, è riuscita a farmi riempire le giornate e a farmi inventare cose nuove e modi nuovi di agire. Ma un agire che ha rischiato, e rischia, di rimuovere il confronto con la solitudine sul ring della quotidianità e della lunga distanza. Certamente non c’è distinzione tra la vocazione e la missione (non sono prete per me stesso) ma a volte finisco con il confondere l’esercizio del ministero con il fondamento della vocazione stessa, cioè l’appartenenza e la sequela di Gesù.
Una seconda parola, stella nella notte della pandemia, è quella che Dio rivolge al profeta Geremia (Ger 32), quando gli ordina: «Compra quel campo!». Geremia è in carcere, Gerusalemme è assediata, il destino del profeta è l’esilio in Egitto, quello del popolo è la deportazione a Babilonia. In un momento buio e disperato il Signore continua a parlare e a orientare il discernimento di Geremia. Chiede, quindi, un gesto profetico che sia segno di investimento sul futuro ed esercizio di speranza. Quando nessuno pensa al domani il profeta compra per i figli un campo in cui costruire la casa e piantare il grano. Mi piacerebbe poter dire che in questo tempo abbiamo comprato un campo e abbiamo fatto un buon investimento.
Certamente abbiamo guadagnato molto nella preghiera personale e familiare, anche quella del mattino; non ci è mancata la Parola di Dio come parola affidabile, tra tante altre invece discutibili, per interpretare il vissuto; non è venuta meno la carità, sia quella più organizzata in parrocchia che quella informale, magari lungo le scale di quei condomini in cui, in altri momenti, sale e scende l’indifferenza e l’estraneità. Probabilmente il precetto festivo, già minato da diverse patologie, è stato definitivamente sconfitto dal virus. Abbiamo capito che si può vivere anche con qualche riunione in meno e qualche cura in più per le relazioni. Le famiglie e i giovani sono tornati protagonisti dell’azione educativa e pastorale, soprattutto nella comunicazione della fede, nell’accompagnamento della prova e nella testimonianza della carità, non è poco. Mi piacerebbe coltivare questo campo. Mi dispiacerebbe, invece, che prevalesse la nostalgia per il «com’era prima»; mi dispiacerebbe che i preti e «il solito giro» di adulti/anziani, per altro molto generosi, ritornassero a occupare quei posti in cui ora sono emersi le famiglie e i giovani. Se non stiamo adesso in questo campo, cosa deve capitare di più grosso perché la Chiesa si rinnovi e faccia un passo verso il domani?