Don Georges Kingo Mabwata, 42 anni, originario del Congo, religioso guanelliano, alla soglia del decennio di ordinazione sacerdotale, è nel nostro Paese solo da tre anni, ma ha già cercato di entrare, a pieno titolo, in quella Chiesa fatta di tante etnie, provenienze, carismi, esperienze, che sono come le tessere di un mosaico prezioso e, talvolta, inatteso che si va componendo e nel quale i consacrati e le consacrate svolgono un ruolo di grande importanza, come ha sottolineato più volte l’arcivescovo. Non a caso, don Giorgio, come già tutti lo chiamano, definisce il ciclo degli incontri di formazione. promossi dai Vicariati della Vita consacrata, «un’occasione preziosa per rinnovare bene il nostro orientamento come religiosi e anche per un cambiamento di mentalità».
Come è giunto in Italia?
Ho lasciato il mio Paese, e sono arrivato in Italia nel novembre 2017, quando ho iniziato la mia missione nella Diocesi di Adria – Rovigo, poi, sono stato inviato alla comunità di Cassago Brianza dell’Opera Don Guanella, con ospiti disabili. In questo nostro Centro sono collaboratore delle attività, mi occupo di catechismo e celebro la Messa giornaliera. All’inizio dire, appunto, Messa è stato difficile, ma ho osservato e cercato di imparare anche il rito ambrosiano.
Si sente accolto e parte di questa unica Chiesa dalle genti che è, e sempre più vuole diventare, la Chiesa ambrosiana?
Sì, sento tutto questo in modo forte dentro di me. Infatti, anche nella formazione ho scoperto tante cose e aspetti che mi stanno aiutando a crescere. Penso che la visione e gli insegnamenti di sant’Ambrogio, ad esempio, siano molto profondi per il vivere e nel promuovere la fede.
Lei sarà una delle persone consacrate che porterà la sua testimonianza durante la mattinata di spiritualità, con l’Arcivescovo, a conclusione del percorso formativo. Quale esperienza intende comunicare?
Voglio parlare dell’emergenza sanitaria nella quale ci troviamo da ormai più di tre mesi, che mi ha coinvolto duramente a livello personale anche se non mi sono ammalato. Ho fatto per due volte la quarantena, perché – prima – si è ammalato uno dei nostri ospiti e io ho dovuto assisterlo; poi, perché un confratello sacerdote è stato trovato positivo, quindi tutti noi confratelli siamo rimasti in quarantena.
Come ha vissuto questo momento e perché crede che confrontarsi su tale passaggio di vita possa aiutare il cammino spirituale?
Sono stato sereno, senza difficoltà. Quando mi hanno detto che il mio confratello era positivo, mi sono sentito in un tempo di prova, ma ero e sono molto tranquillo. Prima andavo ad aiutare i ragazzi, poi, per l’autoisolamento, non ho più potuto farlo e questa è stata una preoccupazione forte, perché mancava persino il personale per lavare i loro vestiti. Credo che tutto ciò che è accaduto, che abbiamo passato, possa, come consacrati, portarci a riflettere anche sulla nostra spiritualità, sulla missione che svolgiamo, sull’impegno quotidiano. È questo senza differenze di provenienza: tutti fratelli e sorelle nella Chiesa dalle genti, come dice l’Arcivescovo che sento molto vicino.