«La gente vive nelle tende e la terra continua a tremare». Giulia Longo lavora per Caritas Turchia da due anni e fra pochi giorni tornerà nel Paese ad aiutare un’umanità dolente. La fotografia – a quasi un mese dal sisma che ha sconvolto l’Anatolia il 6 febbraio – è drammatica: 44.218 morti, 528 mila evacuati, 108.368 feriti e 13,5 milioni di persone colpite a livello psicologico e fisico. I dati del governo turco raccontano solo in parte la furia della scossa e la sua scia di dolore e polvere. Antiochia, nella provincia di Hatay, è un cumulo di macerie: palazzi crollati e strade inagibili conferiscono alla città bagnata dal fiume Oronte un aspetto spettrale.
I danni
«Vivo a Gaziantep e sono in Turchia da quattro anni. La mia casa è distrutta e noi stessi di Caritas siamo sfollati come tutti». Per uno strano gioco del destino, la sera del terremoto Giulia si trovava in Italia. Con lei anche John Sadredin, direttore diocesano di Caritas Anatolia, e monsignor Paolo Bizzetti, presidente di Caritas Turchia e Vicario apostolico dell’Anatolia. «Mentre eravamo in Italia abbiamo contattato i nostri colleghi e aperto i centri d’ascolto per capire le necessità della gente. Abbiamo usato le indicazioni della protezione civile turca e siamo ripartiti quasi subito».
Niente luce e gas, mancanza di cibo, camion bloccati senza possibilità di portare assistenza. «Le prime due notti siamo riusciti a distribuire quello che c’era in diocesi come cibo e coperte. A quarantotto ore dal terremoto il governo turco ha centralizzato gli aiuti tramite la protezione civile che fa parte del corpo governativo statale».
I primi interventi
Gaziantep, Iskenderun, Antiochia e non solo. Città simbolo della sofferenza turca sotto gli occhi Giulia e i suoi colleghi: «Nella prima fase di emergenza abbiamo allestito un centro di prima accoglienza nella città di Mersin. Da lì abbiamo coordinato tutti gli aiuti necessari nei luoghi più interessati dalle scosse». Già al terzo e quarto giorno gli sfollati hanno raggiunto le aree non terremotate e ora anche l’accoglienza si sta strutturando con centri all’interno degli edifici ecclesiali e altre abitazioni: «Nelle zone terremotate le persone vivono in container e accampamenti. Tanti edifici in stato precario continuano a cadere».
Una spinta a cambiare
Giulia racconta un’emergenza viva, non siamo ancora nella fase post-terremoto e i riflettori internazionali si stanno spegnendo, lasciando al buio persone sempre più provate psicologicamente. La Turchia vive una crisi economica opprimente, è tra i Paesi con il maggior numero di rifugiati al mondo e Caritas ha difficoltà a operare anche per il mancato riconoscimento giuridico della minoranza cattolica. «Una difficoltà in più all’interno della tragedia umanitaria – come ha ricordato recentemente anche monsignor Paolo Bizzeti -. Una volta ottenuta la casa, una persona deve anche avere un lavoro, altrimenti la sopravvivenza non è garantita».
È in quest’ottica che Caritas Turchia comincia ad avviare progetti per fornire alloggi e piccole fonti di reddito. «Il dolore può essere il carburante del cambiamento», dice Giulia, perché ogni catastrofe porta con sé la speranza di rinascita. Anche in un confine, quello turco-siriano, spesso al centro di gravi tensioni internazionali.
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